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Il fiato corto dell’economia internazionale affretta la resa dei conti

“Non sorprende che le valutazioni dei mercati stiano cambiando”, dice il direttore generale della BIS Jaime Caruana, alla presentazione della relazione annuale 2015, che l’istituto svizzero vede stupefatto e atterrito come l’anno in cui l’impensabile ormai è diventato ordinario. E non tanto e non solo perché stiamo vivendo un tempo in sembrano cambiare le coordinate stesse dell’agire economico, ma perché ciò malgrado, sembra che stiamo correndo felici verso il redde rationem, di cui la crisi greca è un piccolo assaggio.

Servirebbe una vista lunga, perciò, capace di compensare il fiato corto dell’economia internazionale. E quindi politiche coordinate che mettano mano non solo agli squilibri, che sono il frutto del fiatone che affligge ognuno di noi, ma all’infrastruttura stessa dell’economia, a cominciare da quel sistema monetario internazionale, che potremmo immaginare come il sistema idraulico del capitalismo, che si è mostrato, oltre che inesistente, pericolosa fonte di contagio, visto che alla fine trasmette i suoi impulsi – i tassi bassi o negativi – dove magari non servirebbero, contribuendo perciò a peggiorare gli squilibri.

Sono belle parole, perdute però nel vento di un dibattito che non riesce a uscire dalle coordinate delle quotidianità, quando invece servirebbe capacità prospettica.

Sicché l’analisi di Caruana e della Bis la si apprezza se la si interpreta seguendo la doppia filigrana della cronaca e del processo storico, laddove la prima mutevole e caotica, s’interseca in un movimento che non è esagerato definire secolare, che vede l’eterno pendolo fra il lavoro e il capitale oscillare verso quest’ultimo, con legioni di cittadini stupefatti e arrabbiati, che non accettano e insieme subiscono questo smottamento.

I fatti dell’anno passati è facile riepilogarli. Quelli che contano non sono più di tre: “Il prezzo in dollari del petrolio è sceso di circa il 50% nella seconda metà del 2014; la moneta statunitense si è apprezzata significativamente e in modo generalizzato; infine – forse lo sviluppo più inusuale – i tassi di interesse a lungo termine sono calati ulteriormente, entrando perfino in territorio negativo in alcuni mercati”. Per darvi un’idea di cosa significhi, considerate che 2.000 miliardi di bond pubblici, per lo più europei, sono scambiati a rendimento negativo, in una inusuale, eppure ormai normale, prassi che vuole la tosatura dei creditori come condizione del presunto riequilibrio.

Se considerate che questi 2.000 miliardi sono una fetta significativa dei 30 trilioni di debiti che gli stati hanno cumulato finora, dopo la grande corsa iniziata nel 2008, comprenderete perché è così dirimente che i tassi restino bassi a lungo, come ripetono tutti. Non serve essere economisti per capire che questo livello di tassi è necessario per rendere sostenibili debiti arrivati ormai al livello di dopoguerra.

Metteteci le prospettive, laddove la crisi greca è solo un antipasto, con la banca centrale americana che prova timidamente ad alzare i tassi, ma senza troppa convizione, i paesi emergenti che devono digerire una montagna di debiti, e le ex grandi speranze dell’Occidente costrette a fare anche loro “tutto ciò che è necessario” per salvare le loro economie, gigantesche e fragili.

Le valutazione dei mercati stanno cambiando, quindi, e non potrebbe essere diversamente. Dopo un settennio di crisi, nota Caruana, “il mix delle politiche rimane fortemente sbilanciato. Continuiamo a fare troppo affidamento sullo stimolo monetario, mentre i progressi sul versante delle riforme strutturali sono ancora insufficienti. I trade-off non si stanno di certo semplificando.

Se questa è la cronaca, la storia suggerisce come possibile che “siano all’opera forze secolari che esercitano una pressione al ribasso sui tassi di interesse di equilibrio. Se anche così fosse, tuttavia, riteniamo che l’attuale configurazione dei tassi su livelli molto bassi non sia inevitabile, e nemmeno rappresenti un nuovo equilibrio. È possibile che rifletta invece in misura significativa i limiti degli odierni assetti delle politiche e dei quadri di riferimento analitici nei confronti dei boom e dei bust finanziari”. Che personalmente interpreto come il trionfo del fiato corto sulla vista lunga. Ci preoccupiamo di salvare la pelle creando le condizioni di farci più male dopo.

Che fare quindi? “La conclusione alla quale siamo giunti è che una normalizzazione delle politiche dovrebbe essere accolta con favore. La normalizzazione potrebbe generare una certa volatilità nel breve periodo, ma contribuirebbe a contenere i rischi più a lungo termine”.

Aguzzare gli occhi e trattenere il fiato, insomma.

Il miglior modo per sopportare un redde rationem.

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