Si fa presto a dire informazione. Alzi la mano chi, in questi giorni in cui il Giornalista Collettivo ha tributato paginate intere, ieri alla sentenza della Cassazione che ha sdoganato il cambio di sesso all’anagrafe senza la necessità dell’intervento chirurgico, e oggi alla rampognata della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia rea di non tutelare a sufficienza le coppie dello stesso sesso (su questa specifica vicenda ci torneremo a breve perché oltremodo emblematica dello stato confusionale in cui versa la maggior parte, e quella più influente, dell’informazione in Italia) abbia scovato sui giornali che contano non dico un articolo, ma anche solo un trafiletto, una breve, insomma uno straccio di notizia sulla risoluzione del 25 giugno scorso del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu a favore della famiglia naturale, approvata con 26 voti favorevoli, 14 contrari e 6 astenuti. La domanda ovviamente è retorica. Né poteva essere altrimenti visto che di quella notizia non s’è vista manco l’ombra. E non a caso. Perché i gendermi del pensiero unico annidati nelle redazioni il loro mestiere lo sanno fare, e bene, mica sono mammolette. E’ gente che sa come manipolare a dovere l’informazione per orientare l’opinione pubblica e mettere una quintalata di sale sulla coda della politica. Motivo per cui certe notizie le puoi trovare solo grazie al lavoro di chi la schiena ce l’ha dritta sul serio, non a corrente alternata. E’ il caso, nella fattispecie (e non solo), dell’agenzia cattolica Zenit, che per l’appunto ha dato ieri per prima la notizia della risoluzione Onu. Una risoluzione, tra l’altro, doppiamente importante dal momento che riguarda l’organizzazione che forse più di altre sta conducendo, e non da ieri, una campagna forsennata e a suon di miliardi di dollari per promuovere urbi et orbi il verbo Lgbt, unitamente a politiche abortiste e per la diffusione della contraccezione e della sterilizzazione su scala industriale, soprattutto nei paesi poveri. Anche per questo la risoluzione, come ricorda Zenit, non ha avuto vita facile. Le potenti lobby gay hanno cercato in tutti i modi di far passare le loro istanze, facendo pressione sui vari Stati. Ad esempio con emendamenti, grazie a Dio tutti respinti, dove si faceva riferimento a unioni tra persone dello stesso sesso da ricomprendere nell’ambito della famiglia. Altro aspetto da notare, è la geografia del voto. Da cui emerge come i voti contrari siano venuti dai quei paesi dove più forte è stata la penetrazione della secolarizzazione, Europa in testa che non a caso ha votato compatta per il no (Italia compresa, chapeau) insieme a Stati Uniti, Regno Unito, Giappone, Brasile, Cile, Uruguay, ecc. Laddove invece lo tsunami della secolarizzazione non è ancora arrivato o non ha ancora prodotto i suoi effetti, il voto è stato favorevole. E’ il caso dei paesi africani, di quelli del medio oriente, di quelli asiatici (tranne Corea del Sud e il già citato Giappone), e della Russia di Putin. Ma è solo una questione di tempo. Presto o tardi la secolarizzazione estenderà la sua ombra sull’intero pianeta, anche grazie alla spinta in tal senso che soprattutto gli Usa stanno imprimendo. E che non si tratti di un generico impegno ma di una vera e propria linea di azione strategica dell’amministrazione Obama, è convinto il presidente di Family Watch International, Sharon Slater, secondo cui la promozione dell’agenda Lgbt – si legge in un commento a Lifenews riportato da Zenit – è “un obiettivo primario della politica estera del nostro Paese”. Obiettivo per raggiungere il quale, evidentemente, ogni mezzo è consentito, comprese “minacce, tangenti ed estorsioni”, come ha ricordato il prof. Allan Carlson del World Congress of Families sulla rivista Touchston. Della serie: o i paesi in via di sviluppo accettano di importare la rivoluzione sessuale targata gender, oppure possono dire bye bye ai dollari dello zio Tom. Se nei paesi poveri l’avanzata delle bandiere arcobaleno è sostenuta dalla politica estera americana, qui da noi ci pensano invece i giudici. Emblematiche in tal senso le due sentenze arrivate a stretto giro della Cassazione italiana e della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo citate all’inizio. Emblematiche perché dicono di una deriva, in atto ormai da anni, tale per cui il concetto cardine della vita democratica, ovvero la sovranità popolare, non ha più alcun significato: “…quella che sembra del tutto inaccettabile – si legge in un editoriale sul Foglio di oggi – è l’idea che sia la magistratura, nazionale o sovranazionale, a dettare la legislazione”. L’esempio forse più eclatante di questo fenomeno è quanto accaduto alla “famigerata” legge 40, che dopo essere stata varata dal parlamento e confermata dai cittadini in esito ad un referendum che voleva abrogarla, è stata letteralmente smontata pezzo pezzo dalla magistratura. Chiaro che così non può andar bene. La democrazia si fonda sulla distinzione dei poteri, e anche se in alcuni passaggi storici la politica, e quindi il potere legislativo, si trova in una condizione di debolezza, non per questo il potere giudiziario può arrogarsi un qualche diritto di supplenza. “La giurisdizione – scrive ancora il Foglio – deve garantire l’osservanza delle leggi esistenti, non surrogare la potestà legislativa attraverso interpretazioni forzate di diritti indisponibili…Le mozioni approvate dal Parlamento europeo e le sentenze della Corte di Strasburgo sono in sostanza intromissioni indebite e tentativi di condizionare «dall’alto» l’esercizio del potere legislativo da parte di chi ne ha il mandato elettorale”. Se poi queste “intromissioni indebite” dei giudici vengono oltretutto surrettiziamente interpretate dai media come diktat, e date in pasto come tali all’opinione pubblica stravolgendo senso e significato di una sentenza, il risultato finale non può che essere disastroso. Come nel caso della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di ieri, su cui ora vale la pena soffermarsi un momento. Ciò che tutti (o quasi, e comunque non in modo evidente) i giornaloni laici hanno omesso di dire è il seguente, decisivo dettaglio: se per un verso la sentenza ha accolto il ricorso di tre coppie gay e rimandato al parlamento italiano la decisione su quali strumenti adottare – indicando nelle “unioni civili” o “partnership registrate” quelle che, secondo i giudici, sarebbero le soluzioni più idonee per tutelare le coppie omosessuali – per altro verso la stessa sentenza ha dichiarato “inammissibile” il ricorso laddove questo chiedeva il riconoscimento del diritto alle nozze. Detto in altre parole: la Corte – che per la cronaca non è un organo dell’Unione europea e anzi con l’Unione non ha proprio nulla a che vedere – ha sì riconosciuto che le coppie gay hanno diritto ad una tutela giuridica, ma non a contrarre matrimonio. Se tanto mi dà tanto, ne consegue che alle coppie omosessuali resta preclusa l’adozione, e che quindi non vi è alcun obbligo per l’Italia – come pure in molti si sono maldestramente sperticati a sostenere – di approvare il ddl Cirinnà sulla base di questa sentenza, posto che nel ddl Cirinnà l’adozione è prevista all’art.5. Resta il fatto che le due sentenze di questi ultimi giorni, unitamente alle motivazioni depositate la settimana scorsa di un’altra sentenza, quella del Tribunale di Milano del 24 marzo con cui venne assolta una coppia di genitori che avevano trascritto l’atto di nascita dei loro gemelli nati in Ucraina tramite utero in affitto, rappresentano un’escalation che la dice lunga sull’aggressività della propaganda gender. E che dovrebbe far riflettere i sostenitori, anche in ambito cattolico, di un approccio dialogante che, temiamo, di questo passo avrà ben poche chances.
Strasburgo e dintorni. Media e toghe spingono l’avanzata del gender
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