Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’articolo di Alberto Pasolini Zanelli apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
«Cose turche» si diceva un tempo per indicare, già allora in modo alquanto vago, eventi che si verificavano in un’area fra il Medio Oriente e l’Europa che si chiamava allora Impero ottomano e oggi ha diversi nomi, nessuno dei quali interamente appropriato, ma raccolti un po’ a casaccio sotto la denominazione di Medio Oriente.
Contrasti nominalistici che interesserebbero solo i diplomatici, se non fosse che oggi essi nascono e fioriscono «sulla punta delle baionette» o, meglio, dei missili o delle sciabole dei tagliagola. Quello cui ci si riferisce è un fenomeno ufficializzato da almeno quattro anni, che ha dunque diversi fronti, ma soprattutto uno che conta e che è la Siria.
Ricca di novità, una guerra civile ufficialmente nata con la repressione di moti di piazza e che coinvolge ora dalle scimitarre ai droni e ha per vittima principale il popolo siriano, o meglio le varie tribù che lo compongono e fungono sia da belligeranti, sia da alibi per i giochi delle potenze medie e grandi. Sempre più importanti quanto più sono lontane, più ambigue, più confinano direttamente con la Siria.
Un ruolo particolare, fin dall’inizio, lo ha avuto la Turchia, per motivi soprattutto geografici ma anche economici e infine, come tutto in quell’area del mondo, politico-religiosi. E anche storici, nella misura in cui ha ancora senso riferirsi alle eredità ottomane. Ma non è di questo passato che si parla oggi, bensì, giustamente, degli eventi degli ultimi giorni, i più significativi dei quali hanno appunto a che fare con il governo di Ankara. In meno di una settimana sono giunte almeno tre novità.
La prima, forse la più significativa, è che la Turchia intraprende da pochi giorni, se non addirittura ore, azioni militari dirette contro il Califfato Isis, principalmente con azioni aeree.
La seconda è che queste azioni vengono condotte in collaborazione diretta con gli americani, cui Ankara ha aperto le basi aeree da cui partire per gli attacchi all’Isis. Due decisioni coerenti e che sembrano indicare il completamento di una evoluzione che da qualche tempo è sul tappeto. Per valutarla è bene ricordare che, fino a non molto tempo fa, l’obiettivo delle azioni militari turche, il «nemico» dunque, era il regime siriano definito dal dittatore Assad, ma riconosciuto dall’Onu e dunque dalla diplomazia internazionale.
I turchi agivano militarmente, diplomaticamente e finanziariamente contro il governo di Damasco e dunque, dato che «il nemico del mio nemico è mio amico», in una qualche sorta di «alleanza» con le altre componenti della rivolta, inclusi i sunniti estremisti di varie sigle, la più forte delle quali, soprattutto sul piano militare, è l’Isis. Questo anche perché nella spartizione de facto della Siria, quella geografica, le roccaforti del Califfato si trovano più vicine alla Siria «interna», più prossima all’Iraq ma dunque anche alla Turchia.
Ora la mappa sembra capovolta, perché le iniziative turche contro il regime di Assad favorivano indirettamente il Califfo, mentre oggi l’intervento militare contro l’Isis favorisce indirettamente Assad, il tutto con l’assenso tacito dell’America. O, almeno, così pareva fino a quando Ankara non ha messo in moto un’iniziativa ulteriore, estendendo i bombardamenti anche alle aree controllate dai curdi, che sono stati finora i più efficaci combattenti di terra contro l’Isis, che hanno ricacciato da zone strategiche raccogliendo il plauso di gran parte dell’Occidente.
Ma evidentemente non della Turchia, perché in quella sfortunata parte del mondo è in corso, da decenni ma si potrebbe dire da un secolo, un altro conflitto, nato dalla richiesta dei curdi di ottenere un loro Stato, negato nella spartizione dell’Impero ottomano alla fine della prima guerra mondiale. Quella che si andava disegnando nelle ultime settimane era condannata forse a non durare perché formata da popoli da troppo tempo nemici. La diplomazia internazionale dovrebbe sapere bene che per ricostruire quell’area del mondo non si può non tenere conto della questione curda, che però non vede mai arrivare il suo turno perché altri conflitti ribollono, in genere più in fretta e più sanguinosi. I curdi, si sa, abitano in Turchia, in Iran, in Iraq e in Siria, vale a dire in un campo minato. In cui le cose cambiano anche troppo spesso, nei fatti e nelle parole. L’ultima delle quali è venuta proprio da Assad, che invece di annunciare vittorie ha riconosciuto le crescenti difficoltà di una lunga guerra che contiene un record di contraddizioni. Forse è tempo di cambiare qualche parola in un vecchio modo di dire. Di parlare di «cose siriane».