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Chevron, Exxon e non solo. Tutti i crucci delle Big Oil

Arrivano le trimestrali delle grandi del petrolio Usa – Chevron, ConocoPhillips, ExxonMobil – e, tra prestazioni deludenti, prezzo del greggio depresso e mercati che attendono il ritorno del petrolio iraniano, analisti, investitori e insider scuotono la testa: “Un secondo trimestre consecutivo di perdite nel segmento produzione americano è una sorpresa perché in realtà i prezzi del petrolio sono risaliti negli scorsi tre mesi”, ha commentato Brian M. Youngberg, analista senior di Edward Jones. Ma, come ha osservato Al Walker, Ceo della società petrolifera americana Anadarko, “Sembra improbabile che torneremo a quegli alti margini che hanno storicamente caratterizzato la nostra industria e che ci riporterebbero a crescere”. Il problema delle Big Oil Usa è semplice: per la maggior parte degli analisti, l’America produce troppo petrolio.

EXXON TAGLIA I BUYBACK

Tutte e tre le grandi americane sono andate male nel secondo trimestre – ovvero: hanno accresciuto margini e guadagni nella raffinazione e incrementato l’output, ma nelle attività di esplorazione e produzione perdono soldi. Exxon e Chevron in particolare hanno presentato la peggior trimestrale da almeno dieci anni.

ExxonMobil ha riportato un calo del 52% degli utili nel secondo trimestre, mentre il fatturato si è contratto di un terzo e gli utili dell’attività esplorazione e produzione sono scesi addirittura del 74% a 2 miliardi di dollari. Exxon ha incrementato la produzione di petrolio e gas di quasi il 4% e migliorato le entrate nella raffinazione, unico business che “tiene”, ma ha avvisato che ridurrà i ancora i suoi programmi di buyback perché i prezzi sono depressi e il flusso di cassa resta asfittico. E siccome non è attesa alcuna risalita dei prezzi nel breve periodo e il cash va difeso, Exxon continua a tagliare sulle spese di capitale e di esplorazione (-12% nello scorso trimestre a 16 miliardi di dollari).

CHEVRON, UTILI IN PICCHIATA

Per Chevron l’utile netto si è contratto drammaticamente (-90%) nel secondo trimestre, a 571 milioni di dollari contro i 5,67 miliardi del secondo trimestre 2014. Le revenues sono scese a 40,4 miliardi da quasi 58 miliardi un anno fa. Nei primi sei mesi dell’anno, Chevron ha tagliato le spese di capitale e di esplorazione a 17,3 miliardi contro 19,6 miliardi della prima metà del 2014.

L’attività di produzione di petrolio e gas risulta in perdita di 2,22 miliardi, mentre un anno fa guadagnava 5 miliardi. L’azienda ha già annunciato una svalutazione in bilancio di 1,96 miliardi e il licenziamento di 1.500 persone che le permetterà di risparmiare un miliardo. “Le nostre attività upstream soffrono molto”, ha ammesso il Ceo John Watson, “perché i prezzi bassi hanno ridotto i ricavi”.

Anche per Chevron migliorano i guadagni delle attività di raffinazione (benzina, diesel, ecc.), grazie all’aumento dei margini: il business ora rende quasi 3 miliardi di dollari contro 721 milioni un anno fa. La produzione di petrolio e gas è inoltre aumentata del 2% grazie a nuove o intensificate operazioni in Argentina, Bangladesh e Texas.

Gli analisti sono però scettici: “I risultati del secondo trimestre sono inferiori al previsto per entrambe le aziende, una delusione per Exxon e un disastro per Chevron”, commenta Fadel Gheit, analista senior di Oppenheimer & Company. “Entrambe perdono soldi negli Usa, specialmente Chevron.”

CONOCO: “IL MERCATO SARA’ SEMPRE PIU’ VOLATILE”

ConocoPhillips ha perso 179 milioni nel secondo trimestre, dopo aver messo a segno un utile di 2 miliardi un anno fa, anche se, tolte alcune spese una tantum, nel secondo trimestre ha un utile di 81 milioni. Il risultato non cambia: l’azienda ridurrà nel 2015 le spese di capitale (a 11 miliardi anziché 11,5 miliardi di dollari) e farà scendere le spese operative a 8,9 miliardi rispetto ai previsti 9,2 miliardi perché i prezzi del greggio restano bassi. Le spese operative sono già calate dell’11% nello scorso trimestre. L’azienda ha anche fatto sapere che ridurrà gli investimenti per l’esplorazione in acque profonde. “Conoco si prepara a prezzi ancora più bassi e volatili”, ha messo in guardia il Ceo Ryan Lance.

I prezzi del greggio sono già scesi del 20% dal 23 giugno a oggi perché il mercato si attende l’arrivo di nuove forniture dall’Iran, ma anche perché aumentano le scorte globali mentre la domanda cinese rallenta.

Intanto anche le azioni delle tre big americane hanno risentito dell’andamento negativo del business, con perdite a due cifre da gennaio a fine luglio, contro il +1,4% guadagnato dall’indice S&P 500 nello stesso periodo.

TAGLI GLOBALI

Il drastico taglio dei costi è la prima risposta per far fronte alle difficoltà e interessa tutte le aziende del settore, non solo quelle americane: il crollo del prezzo del greggio ha colpito quasi tutte. Royal Dutch Shell, per esempio, ha riportato nel secondo trimestre un calo degli utili del 33% (che sale a quasi l’80% se si considera solo l’attività upstream) e annunciato il licenziamento di 6.500 persone e una riduzione del 20% delle spese di capitale; per British Petroleum l’attività legata a petrolio e gas ha subito un crollo degli utili del 64% – anche qui con conseguente annuncio di licenziamenti.

Negli Usa hanno perso il lavoro quest’anno 50.000 persone impiegate nell’industria petrolifera ma nel mondo sono stati eliminati 150.000 posti nell’esplorazione e produzione e altri 100.000 nei servizi correlati, rivela la società di consulenza Graves & Co. Nel corso dell’anno altri licenziamenti arriveranno, secondo Graves, soprattutto nell’attività upstream.

Le aziende petrolifere riducono anche gli investimenti, notano i consulenti di Wood Mackenzie, che stimano che da metà 2014 a oggi sono stati cancellati o rinviati progetti per 200 miliardi di dollari a livello globale. Rystad Energy, società di consulenza norvegese, prevede che nel 2015 le aziende mondiali dell’energia taglieranno le loro spese ancora per 180 miliardi di dollari. 

David Kelly, chief global strategist di J.P. Morgan Asset Management, ha scritto che gli investimenti nell’attività di esplorazione e trivellazione negli Stati Uniti sono stati ridotti per 29 milliardi di dollari con conseguente riduzione nella crescita economica dello 0,7% nel secondo trimestre – una quota non irrilevante in un’economia cresciuta del 2,3%.

POSSIBILI SCENARI

La perdita di redditività per le aziende petrolifere è legata al crollo del prezzo del petrolio dovuto sia alla decisione dell’Opec di mantenere invariato il suo output per difendere il market share sia al netto incremento della produzione americana, notano gli analisti. Questo ha creato una situazione mondiale di eccesso di offerta. Il Brent in questi giorni costa intorno ai 52 dollari al barile; a giugno 2014 il prezzo era di 116 dollari.

“Le aziende del petrolio americane sono in qualche modo vittime del proprio successo”, commentano gli osservatori americani. “L’aumento della produzione di petrolio e gas reso possibile dai progressi tecnologici e spinto dagli alti prezzi degli scorsi anni ha determinato un incremento eccessivo dell’offerta, e questo ha fatto crollare il prezzo”.

L’accordo con l’Iran potrebbe portare sul mercato globale, secondo alcune stime, un milione di barili al giorno (su un totale di 94 milioni) e questo lascia temere che i prezzi restino bassi (o scendano ulteriormente).

Uno studio di Ihs Energy nota per esempio che, nonostante la pressione sul prezzo, la produzione mondiale di petrolio quest’anno è aumentata, non scesa, proprio per l’output che arriva dagli Stati Uniti e dai Paesi del Golfo, con Arabia Saudita e Iraq in testa. Insieme questi Paesi hanno incrementato l’output di 2 milioni di barili al giorno, superando di gran lunga la domanda. Gli analisti pensano che perché il prezzo risalga si debba prima raggiungere un “minimo” che ponga fine all’eccesso di offerta: i prezzi del petrolio dovranno scendere fino a quasi 40 dollari al barile e restarvi per diversi mesi, secondo Ihs, prima che si riduca l’output dagli Usa e si ponga fine all’iper-fornitura globale.

Un prezzo di 40 dollari al barile significa la rovina per le aziende petrolifere più piccole, che raggiungono il break-even con un prezzo sui 60 dollari. Tuttavia non tutti gli analisti sono così catastrofisti. Barclays pensa che l’alto livello di produzione di diversi membri dell’Opec non sia sostenibile e che presto arriverà un calo nella loro produzione e esportazione che aiuterà la ripresa del mercato (benché l’organizzazione abbia ribadito per ora che resterà fedele ai target fissati, nonostante i prezzi bassi e nonostante il probabile incremento dell’offerta dall’Iran). Ci sono anche le interruzioni di fornitura lungo gli oleodotti iracheni, causate dagli scontri e le violenze nel Paese, che cominciano a ridurre la capacità dell’Iraq di produrre ed esportare. Ancora, continua Barclays, il petrolio iraniano non rappresenterà una porzione significativa del mercato globale almeno fino a metà 2016. E soprattutto lo studio nota che “finalmente la produzione Usa scenderà nel 2016 se i prezzi restano a questi livelli”.

“La situazione migliorerà solo quando i prezzi del petrolio saliranno e ciò dipende in larga misura da quanto rapidamente e significativamente la produzione americana si adatterà nella seconda metà del 2015, perché finora si è mostrata resistente al calo dei prezzi”, si legge in un’analisi del sito specializzato Oilprice.com. “I mercati stanno cercando di capire quando la produzione shale Usa raggiungerà il picco (o se l’abbia già raggiunto): dopodiché arriverà un periodo di contrazione, necessario perché i prezzi del petrolio risalgano”.

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