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Vi svelo tutte le bufale sulla produttività del lavoro

L’Istat ha pubblicato negli scorsi giorni un report sulle misure di produttività dell’economia italiana. Copre il ventennio 1995-2014, viene scomposto in un “secondo decennio” che va dal 2003 al 2014, a sua volta suddiviso in una fase pre-crisi (2003-2009) ed in quella più attuale (2009-2014).

Il primo elemento che balza agli occhi è la discontinuità verificatasi dopo il 2009: ogni conclusione sull’aumento o sulla diminuzione della produttività del lavoro o del capitale, anche quella che sembra essere la più ovvia, va analizzata con grande scrupolo. Accade infatti che il valore aggiunto, che rappresenta il parametro base che viene utilizzato per misurare a ritroso la produttività dei fattori, risente delle decisioni di politica economica: un forte aumento della tassazione strutturale riduce la disponibilità economica delle famiglie, impattando sui consumi e sugli investimenti, e quindi sulla produttività del lavoro e del capitale disponibile per ora lavorata. Gli impianti che marciano a basso regime, per via del rallentamento economico, e le merci vendute a sconto rispetto al passato pur di farli girare, peggiorano tutti i rapporti di produttività.

Nel lungo periodo, tra il 1995 ed il 2014, il numero di ore lavorate è cresciuto in media dello 0,2% l’anno. Considerato che il valore aggiunto è aumentato dello 0,5%, la produttività del lavoro aumentata dello 0,3%. Viceversa, nonostante l’input di capitale sia aumentato dell’1,7% l’anno, la sua produttività è stata mediamente negativa dell’1,2%. Nel periodo 2003-2009 si è registrata una diminuzione del valore aggiunto (-0,2%) che non è riuscita a compensare né l’aumento ulteriore delle ore lavorate (+0,1%), né quello dell’input di capitale (+1,8%) per cui matematicamemente, ma paradossalmente, la produttività è calata: quella del lavoro dello 0,3% e quella del capitale dell’1,9%. Gli sforzi imprenditoriali, con la stessa intensificazione del fattore lavoro e del capitale non sono stati compensati dal mercato: non si sono trasformati in maggior valore aggiunto. Al contrario, nel periodo 1995-2001 si constata l’enorme aumento della produttività del lavoro, a fronte di un contributo sempre negativo degli input di capitale. Con la globalizzazione, l’import dai Paesi di nuova industrializzazione ha spiazzato i nostri prodotti, mentre l’euro si rafforzava enormemente sul dollaro: stretto in una morsa, il valore aggiunto italiano non poteva più crescere. In modo costante, in tutto il ventennio, la produttività del capitale è diminuita. Gli investimenti immateriali non-ICT e quelli in ICT sono stati quelli più consistenti e contemporaneamente meno produttivi: l’input è aumentato rispettivamente del 3,3% e del 2,4%. La produttività del maggior capitale immateriale non-ICT è stata negativa del 2,7% e quella del capitale ICT dell’1,8%. I restanti investimenti, materiali non-ICT,  sono aumentati in media solo dell’1,5%, con una produttività negativa dell’1%.

Visto dal punto di vista della contabilità della crescita, secondo cui il valore aggiunto rappresenta la risultante dell’aumento delle ore lavorate e dell’input di capitale, i risultati sono diametralmente opposti: l’aumento del valore aggiunto registrato tra il 1995 e il 2014 (+0,5% medio annuo) è imputabile quasi esclusivamente all’accumulazione di capitale, che ha contribuito per 0,6%, e in minima parte all’impiego del fattore lavoro, che ha contributo per lo 0,1%, mentre il contributo della produttività totale dei fattori è stato invece negativo per lo 0,3%.

Da vent’anni, in Italia aumentano sia le ore lavorate sia gli investimenti. Se la crescita langue, e siamo finiti per anni in recessione, forse bisogna guardare altrove.

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