Sarà lo sblocco degli 800 milioni di dollari di crediti vantati dall’Eni per ‘impianto di Darquain in Khuzestan a dare la spinta decisiva a Eni? Forse. Ma non tutti gli analisti ne sono convinti: anzi, la maggior parte resta in attesa di nuove prove, nonostante numeri sorprendenti della major italiana del greggio in un ambiente difficile. Ma di certo lo sbocco delle attività in Iran è un punto di svolta.
IRAN, UN MATTONCINO DEL MIGLIORAMENTO DI ENI
“I crediti – scrive in un report datato 6 agosto Massimo Bonisoli, giudizio su Eni hold con target a 17 euro contro un prezzo corrente di poco superiore ai 16 euro – saranno sbloccati dopo ‘approvazione dell’intesa da parte del consiglio economico supremo Iraniano. La notizia è giunta a seguito del meeting del’ad Descalzi con il ministro del petrolio iraniano, Eni si è dichiarata pronta a reinvestire in Iran con contratti che dovrebbero essere più vantaggiosi rispetto al passato. A dicembre a Londra verranno presentati gli schemi dei nuovi contratti. Lo sblocco degli 800 milioni costituisce un altro mattoncino importante al miglioramento di già mostrato dall’Eni nel primo semestre”. Un miglioramento innanzitutto della produzione: a 1.750 barili equivalenti, ovvero il 7,1% anno su anno. “La divisione Engineering (Saipem, il cui e bit si è attestato a 1,5 miliardi di euro, in calo del 41%) – scrive ancora Bonisoli – è risultata responsabile del risultato inferiore alle attese (includendo Saipem). Le divisioni core hanno mostrato sorprese positive. I costi centrali sono risultati 55 milioni sopra le stime. La ristrutturazione procede a un passo più spedito rispetto al piano industriale. La guidance di produzione E&P è stata rivista al rialzo e in crescita di oltre il 7%, dal 5%, nel 2015. Confermati gli altri target. Riteniamo che l`outlook sulla produzione abbia risvolti marginalmente positivi per il titolo così come i risultati migliori delle attese nelle divisioni core. Tuttavia i risultati di Saipem incideranno negativamente sulle stime di consensus di Eni”.
STIME DI UTILE RIDOTTE
E intanto Equita ha ridotto le stime di utile per azione sul triennio dal 2015 al 2017 del 6%. Inoltre “Il calo degli utili di Eni è superiore ai peers per la maggiore esposizione al upstream. Riteniamo che un ulteriore upside sul nostro target price potrebbe derivare dal successo della ristrutturazione e scorporo di Saipem/Versalis che al momento appare ancora di difficile realizzo”. Eni tratta a 12,5 volte l’utile 2016, in linea con i competitor “interessante in termini assoluti grazie alla credibilità di questo management team dopo i progressi raggiunti del piano industriale”, conclude Bonisoli.
“La trasformazione guida la performance: potrebbe essere questo il mantra del management team di Eni – confermano Lydia Rainforth e Joshua Stone, analisti di Barclays che suggeriscono, nonostante i progressi, ancora di sottopesare il titolo il cui target price è a 19 euro – I progressi ci sono: la nuova guidance, il break-even per la produzione downstream spostato al 2015 dopo due trimestri di risultati positivi. I costi, operativi e di capitale, in discesa tanto che il gruppo di aspetta di avere cassa tale da coprire l capes con il greggio a 60 dollari al barile già tra il 2015 e il 2016, anche se a scapito di capitale da lavoro. Eni, insieme ad altre società petrolifere, sta compiendo passi in avanti per rispondere all’ambiente macro in crisi e vuole ristrutturarsi ancora. L’aspetto che non ci convince è che il ritmo del cambiamento non appare diversificato e vediamo più valore altrove nel settore”.
PESA IL CROLLO DELL’ORO NERO
Per gli analisti è indubbio che i risultati del secondo trimestre per le major, anche Shell e Bp siano stati influenzati dal crollo delle quotazioni del petrolio avvenuta nell’ultimo anno. “Sebbene parte delle perdite siano state compensate da margini sulla raffinazione più alti – dice Roberto Cominotto, gestore del fondo JB Energy Transition – il crescente problema della sovra produzione fa sì che questa rete di sicurezza possa dimostrarsi di breve durata. Non riusciamo in effetti a vedere alcun motivo valido per investire sulle grandi major petrolifere. Le grandi società, tra cui anche Eni, stanno ancora lottando con problemi strutturali significativi. Tra il 2001 e il 2014, periodo in cui il prezzo del greggio è salito dai 40 dollari al barile a oltre 100 dollari, queste società hanno registrato volumi di produzione in calo e i ritorni sul capitale impiegato si sono, di conseguenza, dimezzati, dal 20% al 10%. Asset produttivi vecchi o costosi rimangono il problema chiave, con il gas naturale liquido in Australia e il greggio off-shore, in particolare, che stanno diventando sempre più costosi e complicati da produrre. Nelle riserve di gas e petrolio di scisto dell’America del Nord, che implicano costi di produzione in calo, le major giocano un ruolo soltanto marginale”. Per non dire della distribuzione di dividendi che “anche con un prezzo del petrolio a 100 dollari al barile, i dividendi non potevano essere finanziati dai flussi di cassa operativi. E sono stati finanziati con nuovo debito, emissioni di nuove azioni o vendita di partecipazioni”.
DIVIDENTI CONFERMATI NONOSTANTE FLUSSI DI CASSA DEBOLI
“Non sorprende che il free cash flow resti debole – afferma Martijn Rats, analista di Morgan Stanley, equal-weight su Eni – Escludendo i cambiamenti nel capitale da lavoro, il cash flow operativo si attesta a 2,6 miliardi di euro: con un capex di 3,3 miliardi il free cash flow è negativo per 766 milioni. Nello stesso trimestre la società ha distribuito dividendi per circa 720 milioni. E il management ha confermato ancora un dividendo di 40 cent per azioni, che riflette un certo grado di fiducia nel futuro”.