Skip to main content

Dal Piemonte alla Sicilia: un viaggio

Dalle Alpi fino a Siracusa. Come Annibale. Non c’e’ viaggio migliore che quello antituristico per raggiungere la Sicilia, la fine dell’Italia. Dal Piemonte, dalla punta più alta dove nasce il re dei fiumi: lo Stura. Altro che Po.
Il viaggio migliore, quello di prima classe, si fa in macchina. Guai a prendere l’aereo d’estate. È ormai cosa da terzo stato. Come le crociere. La democrazia, in eccesso, se abbinata ai consumi, rovina ogni cosa. È assai umiliante stare appiccicati con questo caldo litigando per quei due centimetri di bracciolo con il malcapitato nel posto di mezzo. Chissà verrà il giorno in cui l’opera e il teatro saranno low cost e i biglietti aerei carissimi senza che le tratte siano sovvenzionate da regioni e provincie.
In macchina dunque. Lungo le strade. Guai a prendere le autostrade. Roba da maiali. Prima l’Aurelia, poi l’Emilia, quindi l’Appia e infine la Salerno Reggio Calabria. Giustappunto. E siccome tutti dicono che non è autostrada, la prendiamo godendo i vantaggi della migliore autostrada d’Italia. Non a pagamento per giunta.
A fare le strade e non le autostrade, se non si ha fretta di arrivare, se si è fatto proprio l’assunto che non conta la destinazione ma il viaggio, scoprirete che le strade, quelle che vengono dall’inizio dei tempi, dai tempi in cui Roma le costruiva per permettere ai suoi eserciti di raggiungere più rapidamente le sue periferie per proteggerle, sono le più robuste di sempre.
I militari di Roma se le costruivano sotto i piedi. Lastricavano con il piglio dell’eterno di cui era fabbricata l’idea dell’impero che sopravvive a tutto. Che seppe specchiarsi nel suo avversario più temibile: Annibale Barca, appunto. Che dalle Alpi, dalla Val di Susa entrò in Italia pensando di prendere Roma. E di prendersi tutta la penisola, dal Piemonte alla Sicilia. Così, nacque la via Emilia perché i Romani capirono che, per rafforzare i confini per neutralizzare un secondo Annibale, non sarebbe bastato un muro, ma un esercito in grado di raggiungere il nemico nel modo più velocemente possibile.
Dunque in viaggio, per strada. Dove scampati alle rotatorie dei sindaci, tutti competenti, ammantati dallo smartismo renziano, dal cialtronismo al silicone, fosse pure quello innovativo della valley, dove le invenzioni e le scoperte che dovrebbero cambiarci la vita vengono fuori così mettendo due giovani in un garage, si trovano crocicchi e lapidi testimoni del fu. Aghi e filo con cui annodare i fili della storia e dell’identità. Segni disseminati per un’Italia nascosta e vituperata dal just-in-time che esige la velocità da abbinare all’inefficienza. Che è smarrita, che è incapace di coniugare l’universalità con la modernità. Che si mette in bocca parole altrui, come lo studente impreparato, evocando per dire le radici giudaico cristiane dimenticando il plurale Pantheon che fu multiculturale prima di sempre. In macchina da Nord a Sud a fare le strade, evitando il coattume ignorante che si sente à la page perché ha lo smartphone e viaggia con berline familiari condizionate, e che per contrappasso si becca il bollino nero dell’ignoranza con tanto di grugniti, si avverte il senso della distanza. La complessità di scoprire da dove proveniamo che per quanto siamo ignoranti ci sembra più difficile di una missione archeologica. L’umidità della valpadana e delle sue nebbie, le insidie dell’appenino etrusco, la dolcezza dei declivi umbri, lambendo il Trasimeno, quindi le asperità del Sannio e del Vulture. Altro che nazione. Qui la biodiversità si fa ceppo, tradizione, kultur. Ci sono i piceni, i lucani. Il picchio e il lupo. Roba da Berserker. È fare l’autostrada che distrugge tutto. A ridurre il tutto a una cultura da autogrill. Con i libri messi accanto alla porchetta. Ago e filo invece. Ogni ceppo, una sosta. Il bimbo fa la pipì e c’e’ tempo per immaginarsi cosa dovette essere quel luogo quando uomini costruiti dalla forgia di Vulcano dentro un’idea, quella di Roma, erano stati capaci di costruire opere che noi, oggi, neanche con due mila anni di tecnologia in più non sappiamo fare che per il tempo di un ammortamento. Costruiamo per i commercialisti e non per la Storia.
Ai caffè nei bar di periferia, lungo un percorso di tabelle blu arrugginite, dietro il pressapochismo delle chiacchiere spicciole, scoprirete un’umanita capace di stupirvi con una notazione, un aneddoto. Le molliche della storia, sono.
Quando finalmente dopo essere stati sputati fuori dal traghetto, si prende la strada che porta alla fine del viaggio, squadriglie di rondini urlano sfidando le termiche. Il Sole come il disco di Ammon esce dalle acque e si mette dentro a un miraggio tutta la terraferma. Perché la Sicilia esiste e non esiste. Pare Italia ma non è Italia. Tutti la prendono e tutti la perdono per colpa dei primi o dei secondi.



CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter