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Vi spiego perché la Cina s’intrufola in Africa

Nella rincorsa a costi competitivi e qualità accettabile, nuovi attori conquistano sempre la scena. C’è sempre un produttore imprevisto, un paese emergente pronto a offrire condizioni più vantaggiose per attrarre gli investimenti delle multinazionali. La combinazione è invariata: bassi costi e business climate favorevole. L’affermazione di alcuni paesi africani nella manifattura tessile è soltanto l’ultimo esempio della mobilità del settore.

Un recente studio della McKinsey – redatto con la consueta accuratezza di dati – rileva che l’Etiopia per la prima volta è una delle destinazioni preferite (la 7^ tra tutte). Giganti come H&M, Primark e Tesco vi hanno giù installato loro fabbriche. Il Kenia sta registrando una crescita analoga, mentre continuano le performance di mercati più piccoli come Lesotho e Mauritius. Queste ultime hanno per prime tratto vantaggio dall’AGOA (African Growth and Opportunity Act), che offre ai paesi sub-sahariani la possibilità di esportare negli Stati Uniti prodotti dell’abbigliamento senza incorrere in barriere tariffarie.

Ora questo accordo sta indirizzando i suoi benefici verso Paesi più grandi che si stanno attrezzando: Etiopia, Kenia, Tanzania, Uganda. L’Africa Orientale ha potenzialità interessanti: manodopera disponibile, energia idroelettrica, abbondanza di materie prime (soprattutto per consumatori sofisticati che esigono ad es. il cotone organico anche per pantaloni e t-shirt). Un sondaggio tra i produttori conferma le aspettative promettenti per il futuro, alla luce delle dinamiche produttive che la globalizzazione impone.

È tuttavia presto per certificare nuovi equilibri. Il Bangladesh continua a rimanere la destinazione più plausibile. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dai terribili incidenti sul lavoro con una pesantissima perdita di vite umane. Rimane importante l’attrazione di Vietnam, Myanmar, Turchia e India. Dopo questi paesi, solo la Cina precede l’Etiopia per aspettative di investimento. Pechino mantiene comunque un dominio produttivo, frutto di decenni di attività, anche se non è più inattaccabile. Dal 2010 il suo output è in costante dimimuzone, anche grazie alle sue inedite delocalizzazioni. Sono proprio gli investitori cinesi che si dirigono verso i paesi vicini o in Africa. Lì i costi del lavoro sono più bassi e soprattutto si può evitare qualsiasi barriera dagli Stati Uniti, perché le merci sono ufficialmente “Made in Africa”.

L’effetto collaterale è evidente: la Cina potrebbe allevare i propri concorrenti. La storia economica dimostra che il tessile-abbigliamento è uno dei primi settori verso l’industrializzazione di un paese. Il meccanotessile italiano – tra i migliori al mondo – ha contribuito all’emersione di molti mercati. Ora l’opportunità arriva dall’Africa. Le aziende straniere devono controllare la qualità dei prodotti e i rispetto dei labour standard. I governi devono assicurare trasparenza, acume, visione del futuro. Sembrano compiti relativamente facili, nell’auspicio che le premesse africane di sviluppo non si rivelino ancora un’illusione. Se il circolo avviato si rivelerà virtuoso, la platea dei mercati emergenti si arriccherà di nuovi soggetti e la Cina dovrà stavolta negoziare la propria invincibilità pur controllandola attraverso i propri investimenti.

Alberto Forchielli, Mandarin Capital Partners, Osservatorio Asia



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