Poco più di due anni fa, a maggio 2013, la Federal Reserve di Ben Bernanke annunciò la progressiva rimozione dell’eccezionale stimolo monetario introdotto per combattere la crisi scoppiata prima con il crollo di Lehman e poi con la crisi dell’Eurozona, avviando a conclusione il programma di acquisto titoli, il cosiddetto easing quantitativo. I mercati finanziari mondiali reagirono con una preoccupazione che, nel caso dei paesi emergenti, divenne panico, con crolli delle valute locali contro dollaro causati da imponenti deflussi di capitali.
Una antica tradizione: quando il dollaro si apprezza, gli emergenti soffrono, subendo una sorta di prosciugamento dei flussi finanziari di cui beneficiano nelle fasi di riduzione dei tassi sul biglietto verde. E’ di quel periodo la comparsa di crescenti squilibri in quello che sino a quel momento era stato il motore della crescita mondiale, la Cina. Sovracapacità produttiva, bolla immobiliare, un settore creditizio “ombra” che intermediava imponenti flussi finanziari fuori da ogni controllo. Le autorità cinesi, impegnate nella riconversione del modello di sviluppo del paese, da investimenti ed esportazioni a servizi e domanda interna, oltre che nella progressiva liberalizzazione ed internazionalizzazione dei propri mercati finanziari, misero mano a ripetuti stimoli fiscali e creditizi.
Mentre il dollaro si apprezzava per l’attesa di rialzo dei tassi, la Cina vedeva forti afflussi di fondi globali, tesi a cogliere le opportunità di guadagno offerte dal paese. Per evitare un eccessivo apprezzamento dello yuan contro dollaro, a cui la valuta cinese è stata sostanzialmente agganciata, la Cina era costretta a comprare dollari, accumulando riserve. Da allora, il vento è cambiato: la sovracapacità dell’industria ha alimentato pressioni deflazionistiche, il cambio forte ha danneggiato la competitività di un paese i cui salari sono nel frattempo aumentati, i capitali (esteri e domestici) hanno iniziato a defluire. Da inizio 2014 il cambio reale effettivo dello yuan, che considera inflazione e flussi commerciali, si è apprezzato di oltre il 15%, seguendo il dollaro.
Fatale giungere alla decisione di riallinearlo, presa a inizio della scorsa settimana, invocando ufficialmente maggiore aderenza a dinamiche di mercato, anche per portare lo yuan nel paniere di valute di riserva del Fondo Monetario Internazionale. Ma non è mai semplice rimettere il genio nella lampada da cui è uscito. L’Occidente ha goduto per anni dell’impetuosa domanda cinese, alimentata da crescenti squilibri. Ora è giunta la correzione, che rischia di frenare la crescita mondiale, esportando al resto del mondo la deflazione cinese.
Janet Yellen dovrà tenerne conto, quando avvierà la normalizzazione della politica monetaria statunitense. E l’Eurozona potrebbe aver bisogno di stimolare la propria domanda interna, ove il motore dell’export battesse in testa, causa yuan deprezzato. Non la più semplice delle quadrature del cerchio, a dirla tutta.
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