Non sono le solite guerre valutarie quelle in corso, volte a migliorare le condizioni della competitività commerciale delle imprese nazionali a scapito dei concorrenti. Non siamo più all’epoca del gold standard, il sistema di Bretton Woods è saltato da un pezzo, e tutte le banche centrali si sentono autorizzate ad intervenire con ogni mezzo per salvaguardare in primo luogo la stabilità del loro sistema bancario. Perché, in fondo, è questa l’unica vera missione esistenziale di una banca centrale. Tutto il resto, dalla stabilità della moneta alla crescita economica, sono solo obiettivi da perseguire.
Di sicuro, gli Stati intervengono con le nazionalizzazioni bancarie, i salvataggi più o meno mascherati e l’assorbimento dei crediti deteriorati, ma la stabilità del sistema bancario è compito delle Banche centrali. Fintanto che, e soprattutto nella misura in cui, il sistema bancario di un Paese è l’architrave su cui si regge la gestione del risparmio e la erogazione del credito, rappresentando talora la infrastruttura finanziaria esclusiva di quel sistema economico e sociale, le Banche centrali ne rappresentano lo snodo vitale. Il problema principale è rappresentato da una crisi economica profonda, ovvero anche da un semplice rallentamento dei processi di crescita, che metta anche solo in dubbio la stabilità del sistema.
Il sistema americano nel 2008 è stato atterrato dai mutui sub-prime, quello europeo ha subito dapprima le perdite derivanti dai titoli tossici di Oltreoceano e poi quelle degli affidamenti a rischio in Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. Adesso potrebbe toccare alla Cina. Le cattive notizie si susseguono.
La svalutazione dello yuan, decisa a tavolino dalla Banca del popolo cinese, sembrava già assorbita dai mercati: occorre frenare la fuga di capitali dalla Cina senza alzare i tassi di interesse. Quest’ultima decisione avrebbe un effetto controproducente: il timore di una frenata ancor più sensibile dell’economia avrebbe sospinto ancor più capitali oltre frontiera, aggravando le difficoltà del sistema bancario cinese, soprattutto di quello “ombra”. E’ quello maggiormente esposto, per aver offerto rendimenti più elevati ai depositanti e soprattutto richiesto tassi più elevati sui prestiti, ovviamente a fronte di maggiori rischi. Se molti capitali privati hanno preso il volo dalla Cina da ormai più di un anno, non è tanto per cercare più elevati rendimenti quanto per evitare di rimanere in trappola, se mai il sistema bancario dovesse smagliarsi.
Anche la bolla borsistica che ha caratterizzato la prima metà del 2015 si spiega alla stessa maniera: visto che gli impieghi nella economia reale erano divenuti meno remunerativi, altri capitali sono ritirati dal sistema dello shadow banking alla ricerca di un migliore approdo e di immediati guadagni.
Svalutare lo yuan, e continuare a farlo, serve a penalizzare chi vuol esportare valuta: è una perdita secca, ma forse non sufficiente a far cambiare opinione se l’economia cinese continua a mostrare segni di cedevolezza. Prima della crisi del 2008, il dollaro veniva abbandonato a favore dell’euro, e si svalutava quotidianamente: era la forza del mercato a muoverlo, ma nessuno si chiedeva perché. Ora, vista la lezione della crisi americana del 2008-2009 e poi di quella europea del 2010-2011, la fuga da una valuta ha un comune denominatore: i timori per la stabilità del sistema bancario.
Le reazioni sui mercati sono di preoccupazione: non è, come due settimane fa, la reazione ad una decisione di politica monetaria o valutaria delle autorità cinesi, ma l’incognita sulla capacità delle autorità cinesi di contrastare il rallentamento economico: è questo il pericolo da evitare ad ogni costo, se si vogliono rassicurare gli investitori, non solo cinesi. Se altra liquidità viene immessa, forse più per compensare il ritiro dei depositi che per alimentare nuovo credito, il sistema bancario ombra cinese rimane scoperto, e forse è questo il rebus da risolvere.
La Federal Reserve ormai rinvia, di mese in mese, l’aumento dei tassi: aggiungerebbe un altro fattore di instabilità, visto che l’aumento del valore del dollaro rispetto alle altre monete penalizzerebbe tutti coloro che si sono indebitati in questa valuta. D’altra parte, anche a voler considerare cinicamente irrilevante questo aspetto, un aumento dei tassi di interesse negli Usa modificherebbe le preferenze degli investitori a favore delle obbligazioni, innescando l’attesa correzione di Wall Street che è già penalizzata dalla riduzione dei profitti delle multinazionali americane in Europa: è questo, insieme al peggioramento del saldo commerciale americano, il conto che la svalutazione dell’euro ha già presentato a Washington. D’altra parte, non solo gli Usa hanno determinato la crisi più violenta da ottanta anni a questa parte, ma hanno inondato a più riprese l’economia mondiale di liquidità. Questa ha investito come uno tsunami le economie emergenti, ad esempio il Brasile, la cui valuta si è apprezzata tanto da sconvolgerne le relazioni commerciali. La Fed, insieme al governo americano, ha fatto di tutto per salvare le sue banche: per ogni dollaro che è andato a finanziare la spesa pubblica federale, molti di più sono andati ai salvataggi bancari. Prima si salvano le banche, poi si pensa all’economia reale: questa senza quelle non sopravviverebbe.
Dell’euro e dell’Eurozona è difficile dire qualcosa di nuovo: anche da noi i salvataggi bancari sono stati all’ordine del giorno. Ora, si professa la volontà di rilanciare l’economia reale, ma di banche fallite se ne contano sulle dita di una mano, mentre di imprese manufatturiere ed edili che hanno chiuso i battenti sono piene le cronache quodidiane. Anche il Qe della Bce dà altra liquidità alle banche, sgravandole di titoli pubblici: se andrà in nuovo credito alle imprese o in operazioni di Borsa, chissà poi su quali piazze, non si sa.
Tocca a Pechino, ora misurarsi con le conseguenze della crisi, che ancora una volta ha origine nella infelice allocazione delle risorse finanziarie. Nessuno sa con esattezza a quanto ammontino i depositi del sistema bancario ombra cinese, né quanto siano rilevanti le sofferenze che lo aggravano. Nessuno sapeva delle difficoltà della Lehman Brothers prima che fallisse, né delle altre banche americane, inglesi, francesi, tedesche, belghe ed austriache acchiappate per i capelli. Nessuno temeva per le banche irlandesi e spagnole prima che il loro default mettesse a rischio la stabilità dell’Europa.
Finché l’economia reale tira, tutto si sostiene. Ma quando le banche vanno a picco, non regge niente. Le Banche centrali le devono tenere a galla, costi quel che costi. E se anche ci fosse da scatenare una guerra valutaria, va bene così.