Spotify, il servizio streaming di musica, negli ultimi giorni è stato definito invadente, curioso, indiscreto. Il motivo è semplice. Avete presente quando compaiono quelle pagine di aggiornamenti sulle condizioni di utilizzo, scritte a caratteri molto piccoli, con qualche parola in neretto e che sono molto, molto lunghe? Quelle che nessuno legge mai e che alla fine hanno la dicitura “accetto i termini e le condizioni”? Ecco, Spotify, lo scorso 17 agosto, ne ha fatta circolare una che prevede l’utilizzo di alcune informazioni riservate quali: l’analisi della posizione geografica degli utenti, l’accesso ai sensori del loro telefono per capire se stiano camminando o correndo, le fotografie salvate sul cellulare e i dettagli dei contatti presenti nella loro rubrica.
Come spiega Wired, sembra che Spotify abbia superato il limite sulla privacy ad oggi comunemente accettato, anche perché prevede la condivisione delle suddette informazioni con altre aziende.
SPOTIFY COME L’EX
I commenti nei riguardi di questa eccessiva intrusione, sono stati svariati.
“Spotify diventa geloso come un ex: vuole vedere (e conservare) le tue foto, vuole scoprire con chi parli e con chi chatti”. Oppure: “Ne vale davvero la pena di pagare 10 euro al mese per buttare l vento la tua privacy?”. O ancora con messaggi di risentimento: “Spotify è la ragione per cui ho smesso di essere un pirata della musica, per favore non fatemi tornare indietro”.
COSA CAMBIA
In Italia, per ora, nulla. La comunicazione delle modifiche è infatti valida solamente nel Regno Unito, mentre per gli altri 26 Stati, le condizioni rimangono quelle del 2013. Un articolo di Forbes ha analizzato tutte le variazioni e ha spiegato che queste, oltre ad essere abbastanza “invadenti”, sono anche poco chiare e piuttosto ambigue. Viene usato spesso il condizionale rendendo i termini di utilizzo ondivaghi : “Con il tuo permesso faremo questa cosa”; “potremmo raccogliere informazioni sulla tua posizione geografica, per esempio attraverso il GPS del tuo telefono o tramite altri sistemi di localizzazione per personalizzare la tua esperienza su Spotify”; o ancora “alcune informazioni potrebbero essere condivise con i nostri partner pubblicitari per inviarti messaggi promozionali su Spotify o per mostrarti contenuti più personalizzati”
LE SCUSE (DI COCCODRILLO)
Il Ceo di Spotify, Daniel Ek, attraverso l’ufficio comunicazione dell’azienda, il 22 agosto ha pubblicato un lungo post (intitolato “Sorry”) nel quale ha chiesto scusa agli abbonati e ha cercato di calmierare la serie di commenti negativi relativi alle nuove condizioni di utilizzo (che hanno portato anche alla cancellazione da parte di alcuni utenti dal servizio di musica on demand).
“I cambiamenti annunciati nella policy relativa alla riservatezza hanno generato molta confusione sul tipo di informazioni alle quali avremmo accesso e sull’uso che ne faremo. Per questo ci scusiamo. Avremmo dovuto lavorare meglio nel comunicare il vero significato di queste nuove linee guida e l’utilizzo delle informazioni che i nostri clienti decideranno di comunicarci (…) Potremmo chiedere ai nostri clienti il permesso di raccogliere informazioni da nuove sorgenti come rubriche, localizzazione, e dati presenti su dispositivi mobili al solo scopo di migliorare il servizio che stiamo offrendo (…) Chiederemo sempre, in modo individuale, il permesso a ognuno dei nostri utenti di utilizzare questo tipo di informazioni”
In altre parole: le modifiche ascritte sono meno gravi di quello che pensate. Se volete un servizio migliore, fatevi andare bene le nuove condizioni. Sembra un po’ come quando, le prime volte, notavamo che google maps ci diceva quanto distava il lavoro da casa, o quando booking ci incoraggiava ad andare in vacanza, o ancora quando Zalando faceva scorrere sulla destra i maglioncini che volevamo acquistare on line il giorno prima. Ci sembrava un’invasione di campo. Oggi no. Che si stia alzando ancora di più l’asticella della privacy?