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Che cosa penso del riformismo di Renzi

L’intervista di Matteo Renzi al Corriere della Sera (30 agosto) ha suscitato un vespaio di polemiche. A me è sembrata una onesta difesa del suo operato, non priva di qualche stoccata efficace alle contraddizioni in cui si dibatte la sinistra interna del Pd. Mi interessa, tuttavia, riflettere più sul senso generale dell’intervista concessa dal presidente del Consiglio a un agguerrito (e per niente arrendevole) Aldo Cazzullo.

La parola chiave di Renzi è “riformismo”. Per lui, se ho capito bene, essa designa quella combinazione di audacia innovativa, di competenza tecnica e di realismo politico che deve caratterizzare una forza di sinistra al governo del Paese. D’accordo, però allora mi chiedo e chiedo a chi legge: perché solo una forza di sinistra? Se il riformismo è quello dell’accezione renziana (che è poi la più comune), diventa una patente di guida che tutti hanno diritto di usare, conservatori e progressisti, liberisti e neokeynesiani, statalisti e mercatisti.

Voglio dire che un governo – come un partito – si raccomanda per la qualità delle sue idee, delle sue proposte, delle sue azioni e del suo costume politico, e non per il suo sedicente riformismo. Questo termine oggi rischia di significare poco o nulla, o di diventare tutt’al più il significante mimetico di un significato di segno contrario: la maschera dell’impotenza di fronte ai grandi problemi dell’Italia (al netto delle responsabilità e dei vincoli europei, in primis la riduzione strutturale del debito, della spesa pubblica e della pressione migratoria).

Il riformismo storico si definiva in virtù di una duplice contrapposizione: da un lato al massimalismo dell’estrema sinistra, dall’altro al conservatorismo della destra. Nel tempo presente entrambe sono totalmente inconsistenti. La prima evoca uno scontro attuale quanto quello tra guelfi e ghibellini. La seconda è un ferro vecchio: la destra odierna, populista e liberale (anche se secondo Francesco Giavazzi “il liberismo è di sinistra”), ha molte anime, ma è difficilmente catalogabile come conservatrice. Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno innovato almeno quanto Franklin D. Roosevelt e Tony Blair.

Il termine riformismo, insomma, specie se servito à la carte, come è consuetudine, ormai è inadatto a esprimere una differenza chiara e comprensibile agli elettori tra centrosinistra e centrodestra. I laburisti inglesi e i socialdemocratici tedeschi hanno introdotto il concetto di “nuovo” (New Labour, Neue Mitte). Gli stessi laburisti e i democratici di Bill Clinton quello di Terza Via. Il “nuovismo” è diventato la cifra dell’ascesa folgorante dello stesso Renzi. Formule e parole certamente ancora vaghe, che comunque alludono alla necessità di rompere definitivamente i ponti con culture politiche nobili ma irreversibilmente al tramonto (queste cose qualche anno fa me le ha insegnate Massimo D’Alema).

Ho sollevato una questione nominalistica? Sì, ma solo in parte. Infatti, in politica i nomi contano, come ben sapevano i latini con il loro “Nomen omen” (il nome indica il destino di chi lo porta).


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