In un articolo su il Foglio di oggi che merita di essere letto, Antonio Gurrado spiega perché abolire il valore legale del titolo di studio è di sinistra. Purtroppo, è una battaglia contro nemici forti e agguerriti: gruppi studenteschi, lobby dei docenti universitari, forze politiche di entrambi gli schieramenti. Non a caso l’emendamento alla riforma della pubblica amministrazione presentato dal senatore Pd Marco Meloni, che apriva al principio di differenziazione degli atenei, è stato sommerso da un coro di critiche pretestuose.
Eppure, la condizione del nostro sistema universitario richiederebbe un confronto a tutto campo, non viziato da veti corporativi e pregiudiziali ideologiche. Salvatore Rossi, attuale direttore generale di Bankitalia, ha definito i nostri laureati lunghi “animali domestici allevati per essere cooptati nelle baronie accademiche”, e quindi inservibili in un’azienda. Inoltre, in un documentato pamphlet aveva spiegato come la società americana debba il suo dinamismo a un sistema universitario che funziona (“La regina e il cavallo“, Laterza, 2006). E che funziona non perché è privato, come alcuni sostengono superficialmente.
Università prestigiose, come quella di Berkeley, sono infatti di proprietà pubblica. Il sistema funziona in quanto si fonda su regole di mercato: le università si disputano i professori migliori con totale libertà retributiva. L’equilibrio finanziario è assicurato da alte rette e da un esteso meccanismo di donazioni, fiscalmente incentivato. Una quota cospicua delle risorse pubbliche destinate all’istruzione superiore, per altro verso, finanzia direttamente gli studenti sotto forma di borse di studio e prestiti, e non gli atenei (da noi avviene il contrario). Tutte cose note, si dirà. Meno noto, forse, è che negli Usa la spesa pubblica che va all’istruzione postsecondaria è, in rapporto al Pil, quasi doppia di quella italiana.
Beninteso, questo modello esclude sia il valore legale del titolo di studio sia il ruolo unico pubblico dei cattedratici. Il primo presuppone e determina l’altro. Il valore legale del titolo di studio, infatti, implica la natura di impiegati pubblici di coloro che devono rilasciarlo. Come osservava Rossi, essi difendono una uguaglianza fittizia, in cui tutti i diplomi sono uguali per legge, tutti i docenti sono uguali, tutti gli studenti ugualmente liberi di parcheggiarsi nelle aule universitarie a tempo indeterminato e a prezzi politici (ma non per i più svantaggiati).
Già settant’anni fa Luigi Einaudi aveva proposto di abolire con un semplice tratto di penna il valore legale dei titoli di studio, fatta salva la necessità di una certificazione pubblica per l’esercizio di professioni legate alla salute e alla sicurezza dei cittadini. Per lo statista piemontese era una di quelle riforme a costo zero, coerenti con la migliore tradizione del riformismo liberaldemocratico. Ma che volete: il Parlamento italiano adesso non ha tempo di occuparsi di queste bagatelle. È impegnato in ben più epici scontri, come quello sull’elettività del nuovo Senato.