Per i prezzi dei prodotti energetici fossili e delle materie prime siamo di fronte ad un reverse choc: la loro violenta deflazione è un fenomeno che sta tracimando nella recessione dei Paesi produttori, che rischia di avvitare l’economia mondiale in una nuova spirale recessiva. Anche perché era sull’export verso le economie emergenti che si è concentrato, soprattutto da parte dell’Europa, il tentativo di riavviare la sua crescita economica.
A fine settembre, rispetto allo stesso mese del 2014, nell’Unione Europea l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (HICP) è diminuito dello 0,1%. Su base annua, i prezzi dei prodotti energetici sono diminuiti dell’8,9% accelerando la caduta che ad agosto era del 7,2%. L’import petrolifero dell’Eurozona è crollato dai 31,8 miliardi di euro di agosto 2012 ai 19,4 di giugno 2015.
In Italia, sempre secondo le stime preliminari, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, a settembre è diminuito dello 0,3% rispetto ad agosto ma è aumentato appena dello 0,3% nei confronti del settembre 2014. L’indice dei prezzi per i beni energetici non regolamentati è caduto del 12,8% nel periodo settembre 2015-settembre 2014, e di ben il 10% nel solo periodo gennaio-settembre di quest’anno. Ad agosto, e rispetto all’anno precedente, l’import di energia si è contratto del 13,9% in termini destagionalizzati. Leggere così del saldo attivo di 2,6 miliardi di euro, accumulato dall’Italia nei primi otto mesi dell’anno verso i Paesi dell’Opec, rappresenta davvero un capovolgimento delle tendenze ultraquarantennali nel rapporto di scambio tra manufatti e prodotti petroliferi.
In America, con i dati riferiti ad agosto, il CPI (Consume Price Index) è diminuito dello 0,1% sul mese precedente, mentre su base annua l’incremento è stato dello 0,2%. Le statistiche del commercio estero statunitense segnano un calo altrettanto vistoso del valore dell’import dei prodotti petroliferi: nel periodo gennaio-luglio di quest’anno è ammontato a 115 miliardi di dollari rispetto ai 205 miliardi del corrispondente periodo del 2014. Da un anno all’altro, la spesa per le importazioni petrolifere americane si è ridotta del 44%.
In Cina, ad agosto l’indice complessivo dei prezzi al consumo è cresciuto a 102 punti rispetto alla base di 100 riferita ad agosto 2014, mentre quello dei trasporti è sceso a 97,9. Per quanto riguarda il volume complessivo dell’interscambio con l’estero, dato dalla somma di import ed export, ad agosto si è registrata una riduzione del 9,1% rispetto all’agosto 2014 ed una del 7,5% nel valore accumulato tra gennaio ed agosto. La contrazione dell’import è stata del 13,8% rispetto ad agosto 2014, con una riduzione accumulata del 14,5% nei primi otto mesi dell’anno. L’export ha risentito positivamente della svalutazione dello yuan, con una contrazione del 5,5% in ragione d’anno, ma solo dell’1,5% nel corso del 2015.
In Giappone, ad agosto l’indice dei prezzi al consumo è stato pari a 103,9 rispetto alla base 100 del 2010, con un aumento dello 0,2% rispetto al mese precedente ed un identico +0,2% rispetto ad agosto 2014. Nel corso di un anno, poi, le importazioni complessive sono diminuite del 20,5% mentre l’export si è ridotto del 9,1%. L’import di prodotti energetici di origine fossile si è ridotto in valore del 42,3%, mentre quello di materie prime del 27,5% (ma del -48,3% per il materiale ferroso). L’import dal Brasile si è contratto del 24%, quello dalla Russia del 35,4%, mentre quello dai Paesi del Middle East petrolifero addirittura del 46,6%, con il picco del -51,4% dal Qatar.
Dopo la crisi del 2008, il ribilanciamento delle bilance dei pagamenti correnti tra economie strutturalmente deficitarie ed eccedentarie è avvenuto congelando le importazioni e forzando sull’export. L’Eurozona è passata da uno sbilancio di 204 miliardi di dollari, accumulato nel periodo 2000-2008, ad un avanzo di 748 miliardi maturato nel periodo 2009-2014. Il suo import si è praticamente bloccato, rimanendo da ormai quattro anni attorno ai 4 mila miliardi di dollari, mentre l’export è aumentato di circa mille miliardi, passando da 2.427 a 3.496 miliardi. Nel frattempo, la crescita reale dell’Eurozona è caduta dal +18% del periodo 2000-2008 al -1,3% del periodo 2009-2014.
La politica di severità fiscale adottata in Europa, seguendo la strategia della deflazione competitiva, ha determinato una caduta dell’import per via della contrazione della domanda delle famiglie, della riduzione dei deficit pubblici e della caduta degli investimenti fissi lordi, caduti di 2,5 punti percentuali sul pil, e la ricerca di un riequilibrio delle bilance dei pagamenti correnti puntando sull’export attraverso la competitività salariale. Alla crescita anemica di interi continenti come quello europeo, impegnato da anni nella stabilzzazione dei bilanci pubblici e nel risanamento del sistema bancario, si contrappone ora una offerta strutturalmente eccedentaria di capacità produttiva, di prodotti energetici e di materie prime.
Sembra di rivivere la situazione che caratterizzò l’economia mondiale a metà degli Anni Venti del secolo scorso. Allora, mentre gli Usa avevano accresciuto notevolmente la loro capacità produttiva e l’export verso l’Europa insanguinata dalla Prima guerra mondiale, l’economia europea rallentò violentemente, quando nel 1925 l’Inghilterra volle tornare la Gold Standar, riportando il cambio tra sterlina e dollaro ai valori anteguerra, attraverso la deflazione dei salari e la disoccupazione. La recessione inglese si aggiunse al peso del pagamento delle Riparazioni da parte della Germania e del rimborso dei prestiti contratti all’estero da parte dei Paesi vincitori per finanziare la guerra. Anche l’Italia entrò in recessione per via della decisione di riportare il cambio della lira sulla sterlina a “quota 90”. L’economia americana, che aveva assunto la duplice fisionomia di Paese agricolo, grande produttore di frumento e di cotone, e di Paese industriale in grado di sopravanzare Inghilterra e Germania, si venne a trovare in una crisi da sovrapproduzione, con i prezzi in forte calo. Lo stallo dell’export statunitense si ripercosse sugli altri Paesi produttori di materie prime, dalla seta alla gomma, che avevano negli Usa il mercato di sbocco per la loro trasformazione. Il tentativo di far riprendere l’economia americana allargando i cordoni monetari e del credito fu esiziale: in mancanza di sbocchi per l’economia reale, la liquidità si diresse verso impieghi speculativi immobiliari ed in Borsa. La crisi del ’29 nacque così.
Il rallentamento in corso da parte dell’economia cinese ripropone quanto accadde agli Usa a partire dalla metà degli anni Venti, così come la bolla delle Borse di Shanghai e di Shenzen ha ripercorso le dinamiche di Wall Street a quei tempi. Dopo una crisi determinata da debiti eccessivi, in Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo ed Italia, l’adozione del Fiscal Compact ha avuto sull’economia reale europea gli stessi effetti recessivi del ritorno al Gold Standard. Sul versante dell’economia globale, la stasi dell’Eurozona concorre ad aggravare una situazione di eccesso strutturale di offerta produttiva da parte della Cina, di prodotti energetici e di materie prime da parte dei Paesi emergenti. Le iniziative della Bce, con le ripetute immissioni di liquidità dalle Ltro alle T-Ltro, dagli acquisti di Abs e Covered Bond al Qe, non hanno sortito altro effetto che quello di tenere l’economia europea appena al di sopra della linea di galleggiamento.
L’economia europea è in stallo, i prezzi mondiali delle materie prime scendono a vista d’occhio e la sovrapproduzione non trova sbocchi: nel prossimo futuro, c’è molto di già visto.