Per un Paese che nega con assoluta convinzione di essere un impero, gli Stati Uniti hanno un’immensità di basi militari fuori dal proprio territorio: circa 800, dislocate in un’ottantina di nazioni. A 70 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, i militari Usa controllano ancora 174 siti in Germania e 113 in Giappone – per citare due ex teatri di guerra – ma le basi sono ovunque nel mondo. Alcune sono quasi delle città, come l’insediamento della US Air Force a Ramstein, in Germania, o la gigantesca base congiunta US Navy/US Air Force sull’isola di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano.
Altre invece sono dei francobolli che ospitano piccole stazioni radar, magazzini o postazioni d’ascolto. Secondo il libro “Base Nation”, di David Vine, il costo di tanta presenza internazionale supera i $156 miliardi annui. Anche se è un lusso costoso, possedere basi militari in territorio straniero non è solo un fenomeno americano. Sempre secondo Vine, la Gran Bretagna ne ha ancora sette e la Francia cinque, tutte situate in ex colonie. La Russia ne ha otto nelle ex repubbliche sovietiche e una base navale in Siria. Perfino il Giappone mantiene una base a Djibouti, nel Corno d’Africa.
Tuttavia, nel mondo il 96% delle basi militari situate nel Paese di qualcun altro sono americane. Forse l’impero militare Usa non ha carattere territoriale, ma è presente in ogni angolo del globo. Basti pensare che secondo il Socom – Special Operations Command, l’alto comando delle forze speciali Usa — reparti di Berretti Verdi, Delta Force, Navy Seals e altre truppe d’assalto specializzate sono attualmente di stanza in 135 Paesi, perlopiù con compiti di addestramento. È un record. L’anno scorso i Paesi erano solo 133.