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Perché io, liberale, condanno monsignor Charamsa

Fra i tanti commenti che ho sentito sull’intervista dirompente di Monsignor Charamsa al Corriere della Sera, un paio di tipologie mi hanno particolarmente colpito: quelli che insistevano sul coraggio che l’alto prelato avrebbe avuto nel fare coming out; e gli altri che esaltavano invece il fatto che finalmente qualcuno avesse dall’interno gridato alla Chiesa che su certi temi è retrograda e reazionaria e che deve cambiare.

Sinceramente, mi sembra un modo di ragionare che, seppur diffuso, è profondamente errato. Charamsa ha avuto coraggio? Mi sembra esagerato dirlo. Non viviamo più nel Medioevo, cioè ai tempi della teocrazia cristiana, e ciò che egli rischiava era al massimo l’espulsione dalla Chiesa.

Tuttavia egli si era già messo fuori da essa, se è vero che ha tenuto a far sapere a tutti che non solo è un omosessuale ma che ha pure un amante. Si può approvare o meno il dogma del celibato, e si può anche argomentare per un suo superamento (anche in considerazione del fatto che di esso non c’è traccia negli insegnamenti di Cristo), ma non si può negare che esso è oggi una regola fondamentale per il clero.

Ad essa non ci si può sottrarre. Quando monsignor Charamsa ha deciso di seguire la via del sacerdozio lo aveva sicuramente ben chiaro. Ha cambiato idea? Bene, poteva uscire dalla Chiesa con meno studiato clamore mediatico: nessuno, ripeto, glielo avrebbe impedito o gliel’avrebbe fatta pagare più di tanto.

Viviamo in un mondo, qui in Occidente, completamente secolarizzato e la Chiesa cattolica si è non solo adattata ad esso ma è anche diventata una comunità di minoranza nella società. Il Santo Uffizio, presso cui fra l’altro Monsignor Charamsa era segretario aggiunto, non lo avrebbe certo mandato al patibolo. Ed egli avrebbe potuto, con o senza il suo compagno, ricostruirsi una nuova vita e aderire anche casomai a un’altra associazione volontaria con altre regole rispetto a quelle ecclesiastiche.

Ma in questo modo non avrebbe forse dovuto rinunciare a porre drammaticamente, come ha effettivamente posto, il problema, che evidentemente gli sta a molto cuore, del cambiamento delle regole interne della Chiesa? Sicuramente. Ma, allora, il monsignore abbia il coraggio (questa volta sì, coraggio) di dire pubblicamente che era quello lo scopo di tutto il bailamme che ha messo in piedi. E che l’omofobia e la insensibilità di cui ha accusato la Chiesa cattolica non c’entrano un bel niente.

In verità, Charamsa, fosse anche in maniera non del tutto conscia, sapeva che uscendo dalla Chiesa in questo modo così plateale avrebbe avuto non solo l’attenzione ma anche la comprensione delle grandi centrali dell’informazione e dell’opinione pubblica che più conta a livello mondiale. Le quali tutte hanno sempre qualcosa da insegnare alla Chiesa cattolica, che vedono come un “polo di resistenza” a quelle idee “politicamente corrette” che costituiscono il nucleo del mainstream dominante.

La visione del mondo che ha oggi corso in Occidente rischia così di non avere più nulla di pluralistico: di non tollerare che la pensa diversamente. Ciò che su certi nomi diventa sempre più difficile è proprio il dialogo, cioè il cuore pulsante di una società aperta o liberale. E il dialogo non potrebbe nemmeno esserci se tutti la pensassero allo stesso modo, se alcune idee non potessero per principio essere messe in discussione.

Come aveva intuito già Tocqueville, la tirannia dei tempi moderni sarebbe stata più soft e si sarebbe ammantata di motivi etici. E così è stato. In questa situazione, è paradossale ma un liberale deve oggi difendere le ragioni della Chiesa, anche quando non le condivide in tutto e in parte. Egli deve difendere come sempre le ragioni delle minoranze,

Quanto a Monsignor Charamsa, egli non passerà certo alla storia come un “eretico”: non solo non ha rischiato la vita come gli eretici medievali, ma al di fuori della Chiesa ha anche trovato, o troverà, protezioni e influenti solidarietà che non lo faranno certo sentire un isolato.

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