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La relazione pericolosa Mosca-Damasco

L’alleanza tra Siria e Russia non è una novità dell’ultima ora.Perciò non sorprende la notizia, riportata da Adn Kronos, dell’attracco di due navi della Flotta del Mar Nero, la Novocherkassk e la Saratov, nel porto siriano di Tartous, che in effetti in base all’accordo del 1971 è la più importante base navale russa nel Mediterraneo. La Saratov è una nave da sbarco per mezzi corazzati (Lst, Landing ship tank) da 4600 tonnellate a pieno carico, piuttosto obsoleta, essendo stata costruita nel 1966. La Novocherkassk è una nave da sbarco più recente, classe Ropucha, entrata in servizio alla fine degli anni Ottanta.

Essa, secondo il sito della Marina militare russa, ha lasciato il porto di Sebastopoli lo scorso 1 ottobre, per una serie di visite in Grecia e Montenegro. Questo scalo siriano dovrebbe e potrebbe essere dunque l’ultimo prima del rientro in Crimea.

L’agonia del regime
Si tratta di due unità che possono sbarcare mezzi pesanti e uomini (piccoli contingenti di marines della Flotta del Mar Nero), ma non dispongono di sistemi d’arma sofisticati, e la loro presenza isolata, lungi dal costituire un elemento di sfida bellica, rappresenta un segnale inviato a Damasco, dove la classe dirigente si sta sgretolando e ricomponendo secondo un processo sanguinoso di cui nessuno riesce a prevedere gli esiti. In altre fasi della crisi la Russia ha proceduto a farsi vedere nelle acque siriane, ma allora si poteva parlare con
più chiarezza di un gesto e un segnale di amicizia verso Bashar Assad.
Oggi è più difficile capire, perché le fazioni in lotta sono avvinghiate in una stretta mortale in cui il campo governativo ha confini labili e permeabili: nuovi gruppi entrano, altri escono o cambiano casacca, ma il perimetro di Assad si restringe nonostante qualche successo militare come la riapertura dell’aeroporto di Damasco (ma per quanto?). A est i pozzi petroliferi sono quasi tutti nelle mani dei ribelli, a poche miglia dal confine con l’Iraq che finora ha tenuto gli occhi ben chiusi sul traffico di armi dall’Iran, ma anche sui ribelli sunniti che, incapaci di rovesciare il governo Maliki, possono ben essere incoraggiati a tentare la fortuna altrove. A nord la Turchia è ormai riuscita a internazionalizzare la sua partecipazione alla crisi, che a settembre-ottobre aveva i connotati di un intervento nazionale, e che oggi con lo schieramento dei Patriot
prefigura una fascia di sicurezza sotto mantello euroamericano, centrata su Aleppo. A sud le truppe libanesi hanno cominciato ad intervenire più duramente, anche se non è chiaro a favore di chi.

Putin in Turchia
Mosca adesso può mutare gli equilibri e la composizione dello schieramento anti-Assad, non salvare il regime baathista. La visita di Putin in Turchia offre il contesto di questa postura, con accordi che
potrebbero portare l’interscambio a 100 miliardi di dollari, con grave danno dell’Iran di cui teoricamente la Russia è alleato. Associata alla spregiudicatezza commerciale con cui, per esempio, si è inserita nella contesa per le risorse minerarie cipriote, o quella mostrata in occasione della crisi finanziaria greca, la presenza militare russa diventa un elemento di pacificazione regionale, come sarebbe con l’invio di truppe russe sotto mandato Onu in Sinai. Una tale, “grande strategia” sarebbe degna del passato imperiale e zarista, quando la garanzia di Mosca era fondamentale per gestire la crisi dell’impero ottomano. Di fronte ad una nuova scomposizione delle classi dirigenti arabe di quella proporzione, è chiaro che un impegno stabilizzatore russo non può essere respinto al mittente con troppa leggerezza.
Troppi pesi piuma si sono improvvisati pacieri mediorientali, per poi svelarsi come incendiari e pasticcioni. Urge qualcuno che abbia una visione, e l’ambizione di farla valere.


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