Skip to main content

Venti (chimici) di guerra umanitaria in Siria

Russia Today e l’israeliano Debka riportano dei venti di guerra occidentali e americani a largo delle coste siriane. Due gruppi di portaerei (Uss Eisenhower con 8 squadroni di caccia e 8000 soldati imbarcati e la USS Iwo Juna con 2500 marines) sono giunte al largo della Siria attorno al 5 dicembre portando a circa 10mila uomini, 17 navi, 70 caccia e 10 fregate e corvette il totale delle forze navali americane in stand-by per un attacco.

Campo di battaglia del futuro Si tratterebbe di un dispiegamento concordato con quello dei Patriot al confine turco-siriano, come confermato dal ministro degli esteri di Ankara, che ha parlato di tre stadi (layers) di difesa anti-missile: Patriot contro i lanci a corto raggio, il Thaad (Terminal high altitude air defense) per la difesa antibalistica a medio raggio e l’Aegis basato su piattaforme navali. Le componenti Thaad e Aegis, secondo Debka, sarebbero state portate sul teatro dalla Uss Eisenhower. La guerra contro la Siria, anticipata dal lancio di un missile contro la Turchia, il Libano o Israele potrebbe essere dunque la prima in cui sperimentare la difesa balistica multi-layer (multi-strato), un concetto cui la Nato sta lavorando da diversi anni, e che per il momento è confinato ai poligoni missilistici di Creta. Vi partecipano importanti potenze europee, come la Germania, che ha inviato alcune batterie PAC-3 (Patriot a capacità avanzate) in Turchia, mentre Francia e Gran Bretagna sono presenti con forze navali al largo della Siria. Il controllo del sistema Aegis, comunque, è americano. Ma Parigi e Londra sono anche entrate nella fase di sperimentazione del drone tattico Watchkeeper, entrato ufficialmente in valutazione nei due Paesi lo scorso 22 ottobre. Le esercitazioni francesi di novembre possono preludere ad un “drone europeo”, il cui uso tattico nei cieli siriani potrebbe essere la prima verifica sul campo.

Isteria chimica C’è tuttavia una nota stonata nella sinfonia dell’escalation: nessuno si chiede perché mai un freddo e cinico calcolatore come Bashar Assad dovrebbe lanciare un attacco contro la principale potenza Nato nella regione, tra l’altro dopo aver ricevuto diversi chiari avvertimenti Usa (che confermano, lungo la linea Panetta-Clinton, l’impegno Usa a fianco della Turchia, che può essere anche letto come un “abbraccio soffocante” (alleanza in funzione di controllo) e indicazioni da Ankara di essere fin troppo disposta a rispondere a qualsiasi provocazione. D’altronde nessuno sembra scorgere l’analogia tra l’infowar angloamericana sulle armi chimiche irakene, che fu il preludio all’attacco a Saddam dieci anni fa, con quella attuale sulle armi chimiche siriane, che Assad vorrebbe usare e che costituirebbe un “trigger” per l’intervento diretto Usa.

Un “trigger” tra l’altro molto basso e vago, dato che scatterebbe sulla base di “prove dell’intenzione di usarle”, quindi addirittura in senso preventivo. Il viceministro degli esteri siriano ha buon gioco a dire che sarebbe un suicidio. Poiché non è chiaro quali basi con arsenali chimici siano nelle mani dei governativi e quali nelle mani dei ribelli, la linea angloamericana rende fin troppo facile ad una scheggia impazzita, una fazione ribelle, lanciare un “missile false flag” o ad usare una testata chimica, di cui a questo punto nessuno sarebbe interessato a conoscere la paternità, al preciso ed evidente scopo di far entrare in gioco lo schieramento anti-Assad per l’attacco finale.

La proposta del Rand institute Che Assad sia accerchiato e vicino al collasso, d’altronde, sono in molti a ripeterlo, armi e argomenti paragiuridici alla mano. James Dobbins, esperto del Rand Institute ed ex funzionario del Dipartimento di Stato sotto Clinton e Bush afferma che “accelerare la caduta del regime non è una condizione sufficiente per la fine della guerra civile siriana”, ma è comunque “condizione necessaria” per evitare derive ancora più sanguinose. Il suo consiglio è di ricorrere ad un mix di droni, missili cruise e aerei stealth, senza dover proclamare la “no-fly zone” come in Siria e senza intervenire per via di terra. In pratica, scatenando una guerra non dichiarata e sempre “deniable”, cioè smentibile, giustificata da ragioni umanitarie e dalla richiesta di intervento da parte dei ribelli, a patto che importanti settori della Lega Araba, Turchia, Qatar e alleati Nato (in questo quadro, Francia, Gran Bretagna e Germania sono più che sufficienti) siano disposti a fare la loro parte. Dobbins invoca il triplice precedente della Bosnia, del Kosovo e della Libia, come fondamento paralegale per quello che definisce “what is now an internationally recognised responsibility to protect a population from abuse by its own government” (ciò che oggi si riconosce internazionalmente come responsabilità di proteggere una popolazione dagli abusi commessi dal proprio governo). È anche un modo per aggirare gli ostacoli geopolitici emersi all’Onu, dove Russia e Cina tengono la linea del 2003 di opposizione all’utilizzo della guerra preventiva per modificare gli equilibri globali, indifferenti alle argomentazioni utilizzate.

Riti di guerra (e silenzi) liberali Argomenti che invece colpiscono nel segno un’opinione pubblica europea, inclusa quella pacifista, radicale, ecc, mobilitata dai media contro Assad per motivi umanitari. Già nel 1999 Raja C. Mohan, capostipite del realismo geopolitico indiano, segnalò la novità del “bellicismo liberale”, cioè la presenza di un’opinione pubblica disgustata dall’idea di intervenire in guerra per motivi geopolitici, di risorse, ecc. (Iraq) ma assai disponibile verso azioni di guerra nel segno dei diritti umani (Kosovo). Assistiamo e probabilmente sempre più assisteremo, anche in Italia, ad una riedizione di quella situazione, con l’area anti-interventista ancora più ridotta rispetto al ’99, e con una divisione del campo liberal-interventista tra una “destra” attenta alle ramificazioni geopolitiche (con al centro la risistemazione dell’Iran) e una “sinistra” più attenta a collegare ideologicamente la guerra alla Siria alle pressioni su Israele.

Naturalmente, la speranza è che il dibattito geopolitico nazionale ed europeo riesca ad andare oltre a questo strato superficiale e rituale, tra l’altro “cucinato” oltre Oceano, ma i segnali attuali sono tutt’altro che incoraggianti.



×

Iscriviti alla newsletter