Se avete superato lo shock della fusione tra Mondadori e Rizzoli, se vi siete dati tutte le risposte e vi siete fatti perfino qualche domanda sul futuro dell’editoria italiana piena, com’è, di errori: la pressione sui piccoli editori; gli onorari da fame degli scrittori, le posizioni dominanti che fanno vergognare il Kamasutra. Se siete, o almeno vi sentite ancora agili di cervello. Se siete solo falsamente disincantati e disillusi rispetto questo acquario che è l’editoria, ecco allora potete comprare questo libro: Il più maldestro dei tiri. Lo ha scritto Marco Ciriello.
L’ho letto nello spazio esatto tra due incazzature. Manco a farlo a posta. Perché Marco questo libro non l’ha scritto. L’ha urlato. Perché nell’editoria c’è la bulimia e c’è l’anoressia. E riguarda sempre le vendite e non i lettori. Un po’ come il mangiare e l’alimentazione.
Mentre leggevo il Marco Ciriello di questo libro – edito da Ad Est dell’Equatore – mi è venuto in mente Tim Roth ne “La Leggenda del pianista sull’Oceano” che, nel salone del Virginian completamente pieno di gente, sfida Ferdinand “Jelly Roll” Morton. L’inventore del jazz.
Uno pieno di sicumera peggio di un editor che, appena entra nel salone, si avvicina a Novecento, e gli dice : – Io credo che tu sia seduto al mio posto – .
Ecco Marco Ciriello è quel Novecento lì. Che si mette a fare jazz, per tramite di parola, con mezzo secolo di storia politica e pallonara. Prende i personaggi e li fa protagonisti. Prende i protagonisti e li fa personaggi. Racconta episodi e aneddoti mescolando, dentro lo shaker della sua cultura e della sua immaginazione, politica e pallone, l’America e l’Africa, Berlusconi e McNamara, Weah e Lineker.
Il più maldestro dei tiri crea, a forza di citazioni e trasfigurazioni, quello che Maxwell ha fatto con il campo elettrico e quello magnetico con i tensori. L’analogia e la simmetria perfetta.
È un libro ed è un omaggio. A Berselli cui fa il verso il titolo. È un libro ma è, anche, un esercizio. Non è il jazz di Bollani che piace a tutti. Digestivo, suadente. Alla Brioschi che, al massimo, ti fa venire un ruttino. Dove l’unica cosa fuori posto sono i capelli. Quello di Marco è un virtuosismo incazzato che ti costringe a pensare. È, per un verso, il virtuosismo di chi non è dove dovrebbe stare. E per l’altro, il virtuosismo di chi vuole stare dove sta. Perché una cosa sono lo scaffale, le presentazioni e le fiere tutte kermesse e make up. Ben altra cosa è quando non sai cos’è. Allora è jazz.
Spigoloso, attorcigliato. Un continuo saliscendi che ti rompe il fiato. Dai banchi della politica alle panchine. Attraverso i campi da gioco e le massime dei telecronisti un racconto del mondo, tutto racchiuso dentro una geometria. La perfezione euclidea di una punizione di Andrea Pirlo: il massimo ordine mondiale.
Non è il jazz da bordello, quello che deve fare una musica che arriva ai piani superiori senza far baccano, scivolando come una sottoveste. È quel jazz di parole che ti mostra quante cose non sai. Che trasfigura tutto nel contrario di tutto.
Alla fine, poi, dopo che lo hai finito di leggere, ti può capitare quello che è successo a Marco quando lo ha finito di scrivere. Appoggi la sigaretta sulle pagine e l’accendi.