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Come sta cambiando l’arte della guerra

È curioso osservare la trasformazione in corso nell’arte della guerra. Fino a tempi recenti, i grandi Paesi che più sentivano la necessità di condurre una politica estera basata sulla minaccia della violenza esploravano a fondo il campo delle armi di distruzione di massa, strumenti e tecniche che potevano uccidere molti milioni di persone in un unico attacco.

L’approccio poteva avere un senso nei confronti di avversari che la vedevano allo stesso modo, ma è risultato del tutto inefficace per condurre le guerre “asimmetriche”, portando alla sconfitta di importanti potenze da parte di combattenti “scalzi e miserabili”: l’esito della guerra del Vietnam per gli americani, quella dell’Afghanistan per i russi e altre ancora, ma non serve fare lunghi elenchi.

Come non di rado capita, forse è stato il pubblico a capirlo prima degli Stati Maggiori. La reazione europea – quella da “Bar Sport”, non dell’élite – all’invasione Usa dell’Iraq è stata quasi unanime: “Ma perché non vanno semplicemente ad ammazzare Saddam Hussein, senza mettere in mezzo tanta povera gente?”

Probabilmente non potevano, ma la domanda era comunque ben posta. Ora le potenze fanno guerre asimmetriche anche loro. La Russia spedisce i suoi “uomini verdi”, non molti per gli standard tradizionali, ad appoggiare a buon mercato gli “amici” nell’Ucraina Orientale e – per ora – s’impegna meno ancora in Siria, dove preferisce mandare gli aerei e un po’ di missili cruise.

Gli americani fanno sostanzialmente lo stesso nei loro interventi più recenti in Medio Oriente, dove sempre più emerge una strategia di “containment”, un approccio che si potrebbe descrivere come “teniamoli chiusi lì e lasciamo che s’ammazzino tra loro”. Emerge inoltre, molto chiaramente nel caso degli Usa – che hanno il pregio “democratico” di non riuscire a nascondere a lungo quasi niente – il crescente ricorso all’assassinio (“targeted killing”) come legittimo strumento di guerra.

L’assegnazione di tiratori scelti con il preciso scopo di uccidere gli ufficiali della parte opposta in battaglia è stata un’innovazione di Napoleone. Giudicata assolutamente “non sportiva”, la tecnica è stata subito adottata dagli altri Paesi europei. Del suo uso in Iraq e Siria, gli americani parlano tranquillamente: “Gli attacchi della coalizione contro gli ‘high value targets’ – ha spiegato un portavoce del Pentagono in una teleconferenza pochi giorni fa – stanno accorciando la panchina dell’Isis”.

La metafora sportiva è calzante. Pare che i militari Usa chiamino “baseball cards” – “figurine”, come quelle dei calciatori – i dossier che raccolgono per identificare i “bersagli ad alto valore” da far fuori.

Non sono pochi. Documenti usciti dal Pentagono indicano che tra il 2007 e il 2008 le forze americane hanno condotto una media giornaliera di otto “finishing actions” — un eufemismo per gli attentati contro un individuo — in Iraq e altre sei al giorno in Afghanistan. I metodi comprendono l’uso dei droni, di truppe regolari e forze speciali, di aerei da combattimento come l’F-15E Strike Eagle e l’A-10 Warthog.

Non è elegante, non è “sportivo”, ma almeno le grandi potenze non eseguono più piani di guerra che contemplano la morte in “lotti” di milioni di persone. Manca però la prova che la strategia dell’assassinio serva a qualcosa. Lo Stato Islamico pare tutt’ora pienamente in gioco.


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