Trasposto al cinema il volume di Dave Eggars ricorda per certi versi Sleepers, per altri The Rock. E’ un monologo travestito da dialogo. Ce ne sono sei. È inventato ma è reale. E riguarda tutti. Questi dialoghi, che sono pezzi di un monologo, che sono lo sfogo di un’incazzatura, sono degli interrogatori.
È il momento in cui ciascuno di noi arriva alla fine della strada, il vaso è colmo. Si è sulla sommità del promontorio e sotto è il baratro. La vertigine. È il momento di dire:- Basta – . I pezzi della vita trascorsa vanno messi sotto processo. Sotto il proprio giudizio.
C’è la famiglia, ci sono le istituzioni. C’è la politica che crea degli ideali, suscita ambizioni ma, poi, delude. Cambia le regole in corsa. Ci toglie il tappeto sotto i piedi.
C’è il potere giudiziario, che – specie negli Stati Uniti – si fa prendere troppo la mano. Troppe volte. C’è il sistema sociale, l’assistenza sanitaria. C’è l’impalcatura dello Stato con la sua burocrazia che, nella complessità fatta di numeri e statistiche, funziona solo nella media. Non per il singolo.
Il protagonista, la voce narrante, prende in ostaggio in una vecchia base militare abbandonata sei persone. Una di queste è un suo vecchio compagno di scuola: Kev. Uno che ha vissuto andando diritto all’obiettivo. Fare l’astronauta. E c’è riuscito. Il sogno di Kev era pilotare uno Shuttle, solo che quando era finalmente arrivato il suo turno, il programma Shuttle era già stato cancellato dal governo degli Stati Uniti.
C’è, in questo sfogo, la fragilità di ogni essere umano chiamato alla prova dell’esistenza. La precarietà che viene dalla relazione con gli altri esseri umani che incontra e con cui deve fare i conti. I pericoli, i traumi cui si è soggetti da piccoli in famiglia e a scuola.
E poi ci sono i sogni e le illusioni. Che vengono quando le relazioni si allargano fuori dalla cerchia familiare e della scuola. Basta una piccola perturbazione e il sistema della propria esistenza può andare in instabilità. Sfasciarsi.
C’è il senso della confusione e del disorientamento che affligge tutti. Scompare il mestiere o la professione che fino a un istante prima ci ha dato da vivere. Ci dicono che il cibo che abbiamo sempre mangiato fa male. Si scopre che le guerre che avrebbero dovuto garantire la nostra pace, generano altri nemici. Altri spettri che anneriscono il nostro futuro.
Per la voce narrante, questa confusione è responsabilità della politica. Di chi dovrebbe farsi interprete delle istanze e del benessere della comunità. E, infatti, uno dei sei ostaggi è un deputato.
A dirci di più di questo libro però, sono gli assenti. Eggers si muove secondo le leggi di un materialismo meccanicistico. Non ci sono valori nel suo ragionamento, ma obiettivi. Eggers è figlio del suo tempo. Dell’Occidente. Non vede alternative.
Gli istinti umani sono ridotti ai domini di Weiss nell’elettromagnetismo. Per indirizzarli occorre applicare dall’alto un campo magnetico forte, capace di allinearli tutti nella stessa direzione.
La vera assente è la sacralità della vita. Il fine ultimo dell’esistenza che non può essere solo un obiettivo, alto finché si vuole. Che non è di questo mondo ma non perché è sulla Luna o su Marte. È la sfera spirituale che guarda alla comunità in cui vive in termini di identità. Di legami che vanno oltre i rapporti economici e sociali. Quelli dell’umanità che tengono assieme gli uomini prima della buone maniere. Prima della politica. Quel retaggio di “tradizione” che connette l’uomo alla Natura. Alla terra. Alle radici. Ai localismi fatti di dialetti, di usi e costumi. Le frequenze proprie del sistema intimo delle piccole comunità.
Il vero nemico di Eggers, ma che Eggers non vede è la società dei consumi che negli Stati Uniti è giunta alle estreme conseguenze. Quella di un’omologazione che rende tutto inerte.
I vostri padri dove sono? E i profeti vivono forse per sempre?
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