La causa principale del divorzio è il matrimonio (Groucho Marx). Il “discernimento” dei vescovi nella concessione dell’Eucarestia ai divorziati risposati dovrebbe tenere conto di questa elementare verità.
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“Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca D’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare la situazione storica. La trovò poco chiara” (Raymond Queneau, “I fiori blu”, traduzione di Italo Calvino). E ancora non aveva visto la situazione di Roma con Ignazio Marino.
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Un tempo c’erano gli ingraiani, poi vennero gli ingroiani (dal magistrato Antonio Ingroia, ma chi se lo rammenta?), ora ci sono i dattorriani (dal deputato Pd Alfredo D’Attorre): l’involuzione della specie postcomunista.
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Carlo Giovanardi ha lasciato Angelino Alfano e il Nuovo centrodestra. Non vuole più fare “l’utile idiota” di Renzi. Non sono proprio certo che fosse “utile” e, comunque, ce ne faremo una ragione. Per quanto mi riguarda, l’ultimo ricordo che ho del senatore è del 15 gennaio scorso. Il Foglio pubblicò allora una sua lettera sul “caso Cucchi” che sembrava più una fatwā, la requisitoria di un pubblico ministero, un bollettino medico-legale. Beninteso, sulla morte del ragazzo si possono avere opinioni diverse, né mi pare che siamo ancora di fronte a una verità giudiziaria incontrovertibile (speriamo ancora per poco). Ma non è questo il punto. Ciò che più mi colpì nel suo scritto (devo pur definirlo in qualche modo) era il furore quasi feroce con cui si scagliava contro lo “spacciatore”. Insomma, non si poteva certo dire che esso fosse ispirato da uno dei sette doni dello Spirito Santo, quello della pietà. Eppure un cattolico esemplare come Giovanardi avrebbe dovuto sapere che il Dio neotestamentario è sempre misericordioso e compassionevole, o non è.
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La mia antica fede nella moneta unica comincia a vacillare. Infatti, temo che il blocco politico-culturale che ne detta le regole stia ormai mettendo a repentaglio l’intera costruzione comunitaria. Non si tratta di essere keynesiani. Si tratta, qui Matteo Renzi ha ragioni da vendere, di lanciare una sfida agli ottusi ragionieri europei (e domestici) affinché calcolino finalmente quanto vale passare dalla sfiducia alla speranza. Noi abbiamo il più alto debito pubblico (dopo la Grecia) e il più basso debito privato di Eurolandia. A causa del primo abbiamo dovuto fare una feroce politica di austerità. Nel contempo, però, abbiamo dovuto contribuire al salvataggio delle banche di Paesi con un elevatissimo debito privato. Un drenaggio di risorse responsabile – in buona misura dell’impennata del debito pubblico nazionale, nonostante il contenimento della spesa e l’aumento della pressione fiscale che conosciamo. Fino a quando potremo pagare il conto salatissimo di questo paradosso?