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Perché il Fmi vede un’Italia spaccata

Di Paolo Savona

Il Rapporto Svimez 2015 ha richiamato l’attenzione sui problemi del Mezzogiorno ma, come al solito, ha avuto lo stesso effetto di un sasso gettato nello stagno. Infatti le stime di una crescita dell’economia meridionale nell’ordine dello 0,1% per l’anno in corso – dimensione che dovrebbe interessare più un farmacista attento alle dosi di quanto non debba un economista che ben conosce la debolezza dei suoi calcoli – ha fatto esultare la politica del Governo che ha gridato (con palese sollievo) che “anche il Sud ha ripreso a crescere”.

Sarebbe stato più corretto dire che aveva smesso di cadere ma, a ben riflettere, sarebbe stata un’affermazione troppo impegnativa perché non esistono le condizioni affinché ciò possa accadere. Infatti il Rapporto Svimez avverte che la situazione del Mezzogiorno è tragica, comunque la si esamini: il divario Nord-Sud dei redditi si amplia, la caduta del PIL meridionale nel corso della crisi è stata doppia rispetto a quella del Nord, tutti i settori produttivi hanno regredito e i trasferimenti pubblici si sono quasi dimezzati.

In una recente conferenza tenuta al Centro per gli studi europei a Oxford, Jeffrey Franks, rappresentante per l’Europa del Fondo Monetario Internazionale, ha proiettato una foto dell’Italia dove l’intensità dei colori indicava le aree di differente sviluppo; la situazione si presenta tale da indurre il relatore a liquidare il problema affermando che “in pratica esistono due paesi”. E’ la tesi che ripeto da tempo con i miei J’accuse: il problema non è la crescita, ma la spaccatura del Paese, la fine dell’unità dell’Italia. Il resto del mondo lo ha capito, noi facciamo finta che il problema non esista.

Il Rapporto indica nella caduta degli investimenti pubblici, sovrappostasi a quella “storica” degli investimenti privati, la causa maggiore della spaccatura. Non è certo un bell’inizio di millennio. Invero la riduzione non è frutto di un complotto contro il Mezzogiorno, ma il risultato di nostri errori di politica economica a causa delle scelte di privilegiare l’offerta di assistenza rispetto a quella di opportunità e della scellerata politica di austerità fiscale dell’Europa; infatti il bilancio pubblico registra nel periodo di crisi 2007-2014, quando sarebbe dovuto esserci un aumento, una riduzione delle spese in conto capitale del 15,3% contro un aumento dell’1,7% delle spese correnti.

Si sa che il virus colpisce i corpi più deboli. I Governi che si sono susseguiti da molto tempo non hanno mai parlato chiaro ai cittadini dicendo che le politiche assistenziali toglievano spazio finanziario a quelle a favore dell’occupazione e dello sviluppo ed erano perciò liberi di scegliere tra riprendere la strada dello sviluppo o continuare su quella del sottosviluppo. La democrazia è anche assunzione di responsabilità da parte dell’elettore. Pero’ il piano alternativo dove essere ben specificato. Attuare lo scambio tra spese correnti e spese in conto capitale è compito certamente arduo per la politica corrente ma, come disse Guido Carli al termine di un acceso dibattuto nel Comitato dell’economia e del lavoro negli anni settanta, “ricordatevi che gli italiani non sono cretini”.

E’ pur vero che il Mezzogiorno, come suol dirsi, ci mette del suo, ma non è una buona ragione per lasciarlo andare alla deriva. Anche perché è nell’Unione Europea, oltre che nel non più Stato italiano, e questa scelta può nuocere alla stabilità degli accordi internazionali sui quali poggia il nostro modello di sviluppo trainato dalle esportazioni e dalle vendite del Nord al Sud. La risposta del Governo è stata quella tradizionale: dire che in fondo le cose vanno bene e mettere a disposizione una “riserva finanziaria”, con soddisfazione della politica locale, che può così disporre di più soldi per continuare a fare quello che ha fatto, con i risultati visti.

Le Regioni meridionali si sono limitate a dire che i soldi erano pochi, senza invece denunciare una politica per uscire dalla situazione descritta dal Rapporto Svimez e contribuirvi. Chi ci ha provato senza far parte del club dei decisori politici è restato inascoltato, essendo in corso nell’era dei twitter improvvisati una crisi della ragione, “la notte in cui tutte le vacche sono nere” (Kant). Il recupero della forza delle idee è l’investimento più necessario e meno costoso per uscire dalla crisi, non l’attesa messianica della crescita spontanea dei consumi anche nel Mezzogiorno solo perché la gente ha più fiducia, non perché guadagna di più.

Attendo di conoscere il manuale di economia che sostiene questa importante teoria economica.



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