Può darsi che sia stata concordata con Matteo Renzi, come scrive la Repubblica, ma non si tratta certo di una proposta tecnica. Il piano Boeri, infatti, apre la strada al reddito di cittadinanza (i grillini che pensano, per così dire, ad altro non se ne sono accorti; la sinistra Pd che pensa solo alla “forma partito” era distratta), scardina la riforma delle pensioni Monti-Fornero (l’ennesima che doveva essere l’ultima e definitiva), infine apre una finestra sull’intero sistema del welfare che, in effetti, sarebbe da riformare profondamente. Se il professore bocconiano paracadutato alla presidenza dell’Inps non è un ministro del Lavoro ombra, poco ci manca.
La clemenza di Tito (il buon Amadeus non si offenda per la irriverente citazione) si esercita sui 55enni e passa i quali, espulsi dal mercato del lavoro, non sono in grado di rientrare e propone loro un assegno di 500 euro al mese concesso solo per il fatto di avere 55 anni e passa. Dunque, assistenza nuda e cruda, reddito di cittadinanza. Ciò si collega a una flessibilità nell’età pensionabile (cosa buona e giusta in una società sempre più flessibile in alto e in basso). Si è già sollevato un vespaio sulle coperture (a scapito delle pensioni medio-alte) e sulla opportunità politica. “Non per cassa ma per equità”, intitola il suo progetto il clemente Tito che a questo punto appare sempre più come la testa più lucida di una sinistra neolaburista (anche se Cuperlo, Civati, Fassina & C. fanno finta di non accorgersene).
La discussione non è infondata, sia chiaro; come e dove trovare risorse senza dubbio molto consistenti è un punto chiave. Tuttavia Renzi, che ama circondarsi di un trust di cervelli (al quale magari non dà retta) dovrebbe rilanciare, accogliendo la provocazione. Niente reddito di cittadinanza, concettualmente contrario alla impostazione di una sinistra moderata e produttivista, ma un vero assegno di disoccupazione. Pensioni certo flessibili, ma a questo punto con il modello assicurativo (come aveva proposto agli inizi degli anni ’90 dalla buon’anima di Franco Modigliani). E una riforma dell’intero sistema del welfare.
Per lo Stato sociale l’Italia spende molto, però non è fuori linea rispetto agli altri Paesi europei. Il problema è che spende male e in modo farraginoso. Prendiamo il mercato del lavoro. La cassa integrazione speciale, straordinaria, prorogata anno dopo anno, è servita a tamponare solo in parte la disoccupazione. Sappiamo che costa molto, che provoca effetti distorsivi, e alla fine diventa controproducente. Quando la Fiat ha riaperto le porte a Mirafiori ed è andata a pescare tra i cassaintegrati come prevede la legge, ha trovato che due terzi di loro, dopo tutto questo tempo, non era più utilizzabile nel nuovo sistema produttivo (e molti non erano ormai nemmeno disponibili). Ciò apre un grosso problema sociale (che fare di questi operai, non si possono certo gettare sul lastrico) e un problema produttivo (trovare una forza lavoro adeguata).
E’ chiaro a tutti che una riforma deve partire proprio da qui. E’ stato un errore non averlo fatto e soprattutto non averlo inserito nel Jobs Act. Si possono recuperare molti miliardi di euro, da dedicare a un assegno di disoccupazione decente (superiore ai 500 euro di Boeri) che non sia puro assistenzialismo. E si possono trovare quattrini preziosi per un’agenzia del lavoro degna di questo nome che assomigli a quella tedesca, svedese, inglese. I paesi del Nord Europa hanno ridotto il tasso di disoccupazione in questo modo ben prima che la ripresa facesse aumentare i posti di lavoro. L’Italia non lo ha fatto, mantenendo con i denari dei contribuenti una massa di persone molte delle quali hanno via via perduto le loro stesse capacità di lavoro. Un errore sul piano economico, un’ingiustizia su quello sociale.
Una riforma del welfare che parta dal lavoro è senza dubbio molto ambiziosa, più del piano Boeri, e pone problemi seri di finanziamento. Ma siccome (ha ragione il presidente dell’Inps) bisogna procedere non per cassa (non solo), ma per equità, è arrivato il momento di affrontarla. La ripresa (anche se ripresina) crea un ambiente favorevole. Quel che milita contro è semmai il timing politico.
A primavera si vota nelle grandi città e, chissà, forse persino per il Parlamento. Renzi ha costruito una legge finanziaria ad hoc, togliendo le imposte sulla prima casa, riponendo nel cassetto (probabilmente per sempre) la spending review, aumentando il deficit pubblico (misura dal sicuro effetto elettoralistico perché consente di pagare domani quel che si dovrebbe pagare oggi). E adesso un professore bocconiano che guida l’immenso carrozzone del welfare sfruguglia le pensioni? Non si rende conto di maneggiare una bomba dalla miccia già innescata? Tanto peggio sarebbe una riforma strutturale che tocchi la cassa integrazione (terreno di accordi neocorporativi tra ministero del lavoro, ai sindacati e alla Confindustria). Dunque, non se ne fa nulla. Si rinvia al 2017, anno nel quale tutte le magagne dovrebbero venire a galla: l’aumento dell’Iva, il pareggio del bilancio, il taglio alle imposte sui redditi e via via rinviando. Peccato. Un’altra occasione sprecata.
Stefano Cingolani