Dovremmo davvero preoccuparci del rallentamento cinese? Questa domanda basilare, dissimulata dal solito birignao degli osservatori specializzati, aleggia come un mal di testa nei pensieri degli osservatori, non ultimo fra quelli della Bce, che fra i tanti approfondimenti del bollettino economico di novembre ne dedica uno alla relazione che lega l’eurozona alla Cina per il canale del commercio. Che è solo uno dei tanti, ovviamente, ma di sicuro è quello che suscita maggiori preoccupazioni. forse perché gli altri sono meno evidenti al buon senso comune. I link fra banche europee e cinesi, ad esempio. Ma questa è un’altra storia.
Il commercio dunque, ossia laddove la Cina ha suscitato lo stupore del mondo, visto che “negli ultimi decenni il ruolo della Cina nel commercio globale è cresciuto significativamente”, come nota la Bce. E non solo dal lato delle esportazioni, come è uso comune credere. Nel 1980, infatti, le importazioni cinesi pesavano appena il 6% del Pil o poco più. Nel 2014 sono cresciute al 19% di un Pil nel frattempo aumentato enormemente.
Ciò vuol dire che la Cina non è solo un provider di merci, ma anche un notevole consumatore E adesso che il gigante rallenta – l’ultimo piano quinquennale prevede una crescita del 6,5% annuo fino al 2020 – giocoforza chiedersi cosa succederà ai paesi che finora hanno esportato in Cina quote importanti del loro export.
Bene. La notizia rassicurante è che l’eurozona non è fra questi soggetti. Almeno nel suo insieme. Il grafico elaborato dallo studio mostra che la quota di export dell’eurozona verso la Cina quota all’incirca il 6% del totale, con la Germania al top con un 9%, seguita da Finlandia e Francia intorno al 7%. L’Italia sta fra il 4 e il 5%. Vero è che l’export totale verso la Cina è triplicato, negli ultimi quindici anni. Ma a conti fatti l’export dell’EZ nei confronti del gigante asiatico è paragonabile a quello nei confronti della Svizzera e pesa la metà di quello verso gli Stati Uniti e il Regno Unito.
Peraltro è utile notare che da quando la Cina ha cominciato a scricchiolare, e quindi ha diminuito le importazioni, l’EZ ha subito un calo medio appena percettibile. E’ andata assai peggio alla Germania, che ha perso quasi mezzo punto percentuale e a Cipro, che ha perso un punto intero.
Nel complesso perciò alla domanda se dobbiamo preoccuparci del rallentamento cinese il buon senso suggerirebbe di rispondere di no. Anche perché le statistiche mostrano che il rallentamento dell’export dell’EZ verso la Cina è stato compensato dall’aumento di quello verso il resto del mondo. A tal proposito è utile notare che la gran parte delle esportazioni dell’EZ (vedi grafico) si indirizza verso i paesi europei fuori dall’euro, negli Usa e nel resto dell’Asia esclusa la Cina.
Purtroppo in un’economia insensata, come quella nella quale viviamo, il buon senso non ha diritto di cittadinanza. E ciò per il semplice motivo che le economie verso le quali l’EZ esporta sono le stesse che hanno una quota importante del loro export verso la Cina. Di conseguenza patiscono assai più dell’EZ il rallentamento cinese, contagiando indirettamente anche l’EZ.
Se guardate il grafico osserverete che la Corea del Sud manda in Cina oltre il 25% del suo export totale, il Giappone quasi il 20, gli Stati Uniti circa l’8% e il Regno Unito intorno al 4% più o meno quanto l’India. Quindi se questi paesi vendono meno ai cinesi è probabile che finiscano per comprare meno da noi. Per questo forse la Bce scrive che “altri canali di contagio possono essere potenzialmente importanti”.
Ma ce ne sono anche altri. Fra questi la Bce ricorda il peso relativo della Cina nel consumo di energia, che può avere un effetto significativo sul prezzo del petrolio, oppure i notevoli deflussi che si sono registrati dal paese asiatico, che possono condurre a un deprezzamento monetario, aumentando quell’incertezza globale che potrebbe scoraggiare famiglie e imprese proprio quando dovrebbero ritrovare la fiduca nel futuro.
Insomma: dobbiamo temere il contagio della sindrome cinese? Non direttamente. Dobbiamo temere di temerlo.
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