Skip to main content

Che cosa succede tra le economie di Usa, Europa e Cina?

yellen

Per giudicare il processo di riequilibrio dell’economia americana, occorre andare al di là delle apparenze. Per considerare superati i gravi problemi strutturali che portarono alla crisi del 2008, non basta considerare, come fa la Fed, solo gli obiettivi concernenti il tasso di disoccupazione, finalmente al 5% rispetto al 5,3% che era stato previsto a giugno, ed il consolidamento della crescita del Pil nel 2015, al 2,1%. rispetto al precedente +1,9%. Né risulta dirimente, al contrario, il fatto che l’inflazione cali ancora, dal previsto +0,7% al +0,4%, ancorché il dato “core” sia sostanzialmente stabile, passando dal +1,3% al +1,4%. Anzi, contrentrare il dibattito sulla necessità di riportare l’infazione al 2%, e sugli strumenti a tal fine necessari, rappresenta un modo per sfuggire ad una analisi assai preoccupante delle dinamiche statunitensi: la sua economia continua ad essere squilibrata sia sul versante estero, finanziariamente ed economicamente, sia soprattutto per via della crescita interna che continua a dipendere dal nuovo debito.

Nonostante le immissioni straordinarie di liquidità da parte della Fed, che con l’ultimo Qe3 hanno agevolato il deficit federale e la ripresa dei valori immobiliari, l’America continua a spendere il risparmio altrui: deve trovare continuamente qualcuno che glielo presti, sempre di più.

Da oltre trent’anni, gli Usa sono prenditori netti di capitali dall’estero: la loro posizione finanziaria netta è passata dal massimo attivo, registrato nel 1980 con 297 miliardi di dollari, ad un passivo crescente, pari a 7.020 miliardi a fine 2014. Nei soli sette anni della crisi, fra il 2007 ed il 2014, il peggioramento è stato di 5.740 miliardi di dollari. I dati più recenti, che mettono a rafffronto le risultanze dello scorso giugno con quelle dello stesso mese del 2014, mostrano un saldo negativo di ulteriori 1.169 miliardi. Le misure assunte dopo la crisi non hanno affatto inciso su questa tendenza: in rapporto al Pil statunitense, si rilevano queste percentuali: -16,8% nel 2010, -28,7% nel 2011, -28% nel 2012, -32% nel 2013, -40,5% del 2014, -37,5% a giugno scorso. Se nel 2012 la stasi economica, e quindi dei flussi di risorse dall’estero, ha determinato la decisione della Fed di varare il Qe3 a settembre di quell’anno, il piccolo miglioramento del saldo registrato a metà del 2015 è stato determinato dalla contrazione delle posizioni creditorie americane verso l’estero,  passate da 24.987 a 24.538 miliardi (-449 miliardi), mentre quelle debitorie sono ancora aumentate da 30.505 miliardi a 31.226 (+721 miliardi). Complice la tendenza del dollaro a rivalutarsi sull’euro, gli Usa hanno dovuto riportare risorse a casa.

A giugno 2014, insieme ai Paesi produttori di petrolio ed alle banche dei Paesi Caraibici, i maggiori investitori stranieri negli Usa (considerando sia i titoli di debito, pubblico e privato, che l’equity) erano nell’ordine: il Giappone con 1.917 miliardi di dollari, la Cina con 1.817 miliardi, il Regno Unito con 1.289 miliardi, seguiti a distanza dal Belgio che opera per conto di terzi Paesi con 712 miliardi, dalla Germania con 320 miliardi, dalla Francia con 269 miliardi e dall’Italia con 70 miliardi. Tranne la Gran Bretagna, i Caraibi ed il Belgio, si tratta dei Paesi migliori esportatori negli Usa.

Ed è infatti lo squilibrio strutturale tra import ed export che determina il crescente indebitamento americano verso l’estero. A partire dal 1982, il saldo della bilancia dei pagamenti correnti americana è sempre stato negativo. Tra il 2000 ed il 2014 è stato accumulato un saldo di -7.883 miliardi di dollari, mentre nel periodo 2007-2014 è stato di -3.193 miliardi: dopo la crisi, poco o nulla è cambiato.

La bilancia dei pagamenti americana rimane ancora costantemente negativa, anche se per un importo ormai dimezzato rispetto ai picchi del periodo 2007/2008 quando si aggirava fra i 750 e gli 800 miliardi di dollari annui. La contrazione del saldo passivo è stata determinata dal forte incremento dell’export di servizi, mentre il gap nel comparto delle merci si è dimostrato irrecuperabile per via della desertificazione industriale, inizata negli anni Ottanta. Per arrivare al pareggio della bilancia dei pagamenti correnti occorre aprire nuovi mercati al comparto dei servizi: la strategia degli accordi di liberalizzazione Trans-Pacifici e Trans-Atlantici è coerente con questo obiettivo.

Di recente, si è completamente disseccato l’afflusso dei capitali stranieri che negli anni scorsi sottoscrivevano massicciamente le emissioni di titoli federali statunitensi. Tra il 2007 ed il 2014, i non residenti hanno aumentato di 3.780 miliardi di dollari la loro detenzione di titoli della Treasury: questo afflusso, da solo, ha più che compensato il contestuale squilibrio della bilancia dei pagamenti che era stato di -3,173 miliardi. Già nel corso del 2013, però, c’è stato un consistente rallentamento nelle sottoscrizioni dall’estero: la detenzione di titoli federali Usa è aumentata di appena 362 miliardi di dollari. Più di recente, tra l’agosto del 2014 e quello di quest’anno, lo stock detenuto dall’estero è cresciuto nel complesso di appena 29 miliardi di dollari, passando da 6.069 a 6.098 miliardi. Mentre la Cina ha congelato le proprie detenzioni a quota 1.270 miliardi di dollari, il Giappone le ha ridotte di 33 miliardi e la Russia di 28 miliardi. Il Belgio, che opera per in conto terzi, è sceso di una somma imponente, ben 240 miliardi di dollari. Le banche caraibiche hanno invece incrementato di 82 miliardi, i Paesi esportatori di petrolio di 26 miliardi, il Regno Unito di 50 miliardi. Ci sono ragioni molto diverse tra loro: geopolitiche per la Russia, geofinanziarie per la Cina, ma anche banali ristrettezze economiche nel caso dei Paesi produttori di petrolio.

Nel frattempo, negli Usa, i dati relativi al credito al consumo, ai prestiti per l’acquisto di auto, ed alle erogazioni di prestiti alle imprese, dimostrano che tutto è tornato come prima: l’economia americana cresce a debito. A partire dalla metà degli anni Ottanta, il saggio di risparmio rapportato al reddito disponibile si è dimezzato, mentre è cresciuto progressivamente il ricorso al credito. Si spende di più, l’economia cresce, ma sballano i conti della bilancia commerciale: anche all’estero, si compra a credito.

La posizione internazionale finanziaria netta americana si deteriora, anno dopo anno. Finché ci sarà credito estero, andrà avanti così: l’aumento dei tassi da parte della Fed attirerà nuovi capitali negli Usa, soprattutto europei, mentre l’ulteriore svalutazione dell’euro, attraverso un rafforzamento del Qe da parte della Bce, aumenterà il potere di acquisto delle famiglie americane nei confronti delle merci europee. Gli americani continueranno ad acquistare a debito, mentre gli europei venderanno a credito: loro consumano e noi produciamo. Siamo noi, i nuovi cinesi?



×

Iscriviti alla newsletter