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Le metamorfosi dell’economia: la nuova ricchezza

Ricordo come un sogno allucinato il tempo della new economy dei primi 2000, quando pletore di prezzolati vollero convincere il mondo che si era all’alba di un’era dove la rivoluzione tecnologica avrebbe reso del tutto superflui concetti antichi come quello secondo il quale un investimento debba generare un reddito per essere ripagato. Già da allora malato d’economia, seguivo col fiatone le scorrerie plurimilionarie di sedicenti aziende che venivano scoperte, quotate, arricchite e poi svuotate allorquando i finanziatori si ricordavano che non basta una buona stampa per avere successo negli affari. Servono i flussi di cassa, e di quelli solo pochissimi ne videro e comunque largamente insufficienti a soddisfare le aspettative degli investitori.

Poi il mondo scoprì che era tutta una bolla, modo educato per non dire che era una truffa, e che la new economy somigliava alla passione per i tulipani dell’Olanda del XVII secolo: una follia. E per uno che ci ha guadagnato – conosco un tale che è riuscito a comprarsi casa con la plusvalenza realizzata in una settimana mettendo tutti i suoi soldi su non so quale e-company che si andava quotando – milioni ci hanno perso, e ancora piangono.

Sicché capirete con quanta prudenza oggi possiamo usare il termine Nuova economia, che peraltro evoca legioni di fantasmi che attraversano tutto il Novecento. Anzi, non possiamo usarlo. Se lo usassimo evocheremmo, ultima della lista, la straordinaria ubriacatura di quindici anni fa e il senso del discorso ne uscirebbe falsato. Tanto più che non ci serve una nuova economia. Quel che ci occorre è una metamorfosi della vecchia, che ampli le nostra vedute fino a includere ciò che è evidente eppure rimane inosservato. La metamorfosi dell’economia, come ho detto altrove, passa per una sostanziale rielaborazione dei significati delle parole dell’economia non da un loro diversa modalità applicativa.

La prima parola che dobbiamo rielaborare è ricchezza. E non è certo un caso se inizio da questa. Adam Smith, che la vulgata accredita come l’iniziatore accademico della teoria economica, scrisse il suo capolavoro nel 1776 e si intitolava proprio La ricchezza delle nazioni. Perché già da allora – ma in realtà assai da prima – era questo lo scopo dichiarato della ricerca economia: l’accumulazione della ricchezza. Che Smith la riferisse alle nazioni era un lascito culturale dei primi economisti, ad esempio i mercantilisti, che cercavano metodi per rendere potenti le nazioni dove vivevano, potendo così quest’ultime proteggere i traffici dei mercanti con la spada dell’esercito. Ma, mutatis mutandosi, la ricchezza delle nazioni non era poi così diversa da quella cui potevano aspirare gli individui. Bastava seguire le stesse regole.

Prima di Smith, e basta ricordare l’opera di Thomas Mun, mercante inglese del XVII secolo divenuto poi autore di un libro ormai dimenticato (England’s Treasure by Foreign Trade), la ricchezza di una nazione dipendeva essenzialmente dalla quantità di metallo prezioso, oro ma soprattutto argento, che un paese riusciva a cumulare grazie al commercio estero.

La mania per i metalli preziosi crebbe notevolmente una volta che questi cominciarono ad affluire copiosi dal nuovo mondo, determinando una notevole crescita dei prezzi, di cui per primo diede spiegazione Jean Bodin nel celebre (quanto poco letto) libro La risposta ai paradossi di Malestroit. Prima di allora la ricchezza era collegata a quella che Verga chiamerà “la roba”: terre, animali, uomini. I ricchi erano innanzitutto possidenti, e per lo più aristocratici. Neanche la rivoluzione mercantile e bancaria dell’Italia del basso medioevo aveva cambiato questa consuetudine. Bisognerà arrivare alla formazione degli stati nazionali perché la teoria mercantilista allarghi la concezione della ricchezza collegandola esplicitamente al metallo prezioso.

Con Smith l’economia conosce una nuova e determinante evoluzione che dura sostanzialmente fino ai nostri giorni. La ricchezza di una nazione, spiegò Smith, dipendeva essenzialmente dalla sua produzione, derivandosi da essa i redditi della collettività secondo l’equazione che farà più tardi Say con la sua celebre e mai passata di moda legge degli sbocchi. “Il reddito annuale di ogni società – scrive Smith – è sempre esattamente uguale al valore di scambio di tutto il prodotto annuale della sua industria, o meglio si identifica esattamente con il suo valore di scambio. Perciò (..) indirizzare questa industria in modo che il suo prodotto possa avere il massimo valore (..) contribuisce a massimizzare il reddito annuale della società”. E quindi la ricchezza, che perciò dipende principalmente dalla produzione industriale.

Oppure quest’altro passo, preso sempre da libro di Smith: “E’ la grande moltiplicazione delle produzioni di tutte le differenti arti, in conseguenza della divisione del lavoro, a dar luogo in una società ben governata a quell’universale opulenza che si estende fino alle classi sociali più basse”. Qui troviamo già cenno del principio del lavoro come fonte del valore, e quindi della ricchezza, ma in quanto capace di trasformare qualcosa in un prodotto. Ossia ciò che è vera ricchezza.

Smith d’altronde scriveva agli albori della rivoluzione industriale e quindi la sua riflessione non poteva che risentirne, essendo il discorso economico null’altro che una rappresentazione dello spirito del tempo.

Il mito della produzione come fonte della ricchezza, però, dura tuttora, ma solo nella rappresentazione stilizzata della realtà: quella delle statistiche e dal dibattito sociale più o meno sensato.

Al contempo però, in consessi più esclusivi, sta crescendo la consapevolezza che l’origine della ricchezza si stia localizzando altrove. L’eredità della vecchia new economy, a parte i debiti che ha lasciato sul suo cammino, consiste sostanzialmente nell’aver diffuso la comprensione che le nuove tecnologie hanno spostato la capacità di creare ricchezza dalla fabbrica dei beni a quella delle idee.

Oggi la fonte della nuova ricchezza è rappresentata da beni immateriali, come i brevetti, le licenze, il copyright. E il fatto che l’Ocse nell’agosto scorso abbia aggiornato un documento saliente in tal senso (Enquiries into intellectuale property’s economy impact”) mostra che tale consapevolezza sia ormai matura per traslocare pienamente nel pensiero economico applicato, pur se con tutte le difficoltà che la nostra consuetudine deve affrontare per assimilarle. Ciò non può che avere conseguenze determinanti, sia sul versante fiscale che su quello occupazionale.

Ma questa è una storia ancora tutta da raccontare.

Twitter: @maitre_a_panZer

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