Il 2014 è stato un anno meraviglioso per i fondi pensione, e di conseguenza il futuro sarà sempre più a tinte fosche. La tentazione dell’ossimoro mi sfiora mentre leggo l’ultimo focus dell’Ocse sul mercato dei fondi pensione, ma poi capisco che la contraddizione apparente fra un presente roseo e un futuro spaventoso non appartiene alla mia fantasia, ma alla logica stessa della contemporaneità, che colleziona rialzi di borsa e crescenti timori di aggiustamenti vieppiù dolorosi di là da venire. Proprio ciò che nel 2014 ha nutrito i rendimenti dei fondi, e per il sesto anno consecutivo, rischia domani di gettarli sul lastrico di una correzione disordinata, e con loro anche tutti quelli che hanno affidato la speranza di vecchiaia a queste entità, che ormai gestiscono asset, per il totale dei paesi Ocse, per 25 trilioni di dollari.
La parola magica che minaccia la salute di questi colossi della finanza è il “search for yeld”: la fame di rendimento. Il bisogno di far quadrare i conti, in un ambiente dove gli asset più sicuri spuntano rendimenti negativi, costringe i gestori a spingere sul pedale del rischio e perciò l’Ocse non si perita di ricordare che tale attitudine può, in un futuro più o meno lontano “mettere a rischio la solvency dei fondi pensione”. Che poi significa terremotare le rendite dei futuri pensionati che a tali entità hanno affidato la sicurezza della loro vecchiaia.
Per dare l’idea dell’importanza sistemica che ormai queste entità hanno raggiunto bastano poche cifre. Gli asset gestiti, cresciuti dell’8,1% dal 2008, ormai quotano per i paesi OCSE l’84,4% del Pil complessivo, mentre in altri paesi selezionati fuori dall’area il 36,4%, e con i loro 25,2 trilioni di valore rappresentano il 66,8% del totale degli asset per pensioni private. Il resto viene gestito da banche o fondi di investimento, oppure da assicurazioni.
I grafici mostrano che tuttavia il peso specifico dei fondi pensioni è molto diverso fra i singoli paesi. In Olanda i loro asset valgono quasi il 160% del Pil, in Francia appena lo 0,5%. In Italia siamo nell’ordine del 6,7%. Quindi i rischi che ne derivano sono assai disegualmente distribuiti, se non si tiene conto dell’effetto sistemico che comunque queste entità sono in grado di determinare. Negli Stati Uniti, ad esempio, valgono l’83% del Pil, quindi una roba all’incirca da dieci trilioni che vaga per il mondo in cerca di rendimento.
Il ritorno degli investimenti nel 2014 è stato assai diverso, ma comunque positivo per tutti i paesi OCSE, con una forbice compresa fra l’1,2% della Repubblica Ceca al 16,7% della Danimarca. In media nell’area il rendimento è stato del 5%. Fuori dall’OCSE la media è stata dell’1,2%. Nei passati dieci anni, tali rendimenti sono stati positivi in gran parte dei paesi considerati. Al contrario, in alcuni paesi come la Russia, i rendimenti del 2014 sono stati negativi del 7,4%. Ma anche a Hong Kong, con il -3,2%.
Quanto alla composizione dei loro portafogli, il 23,8% è investito in azioni, il 51,3% in titoli obbligazionari e il 9,6% in liquidità e depositi. Questi investimenti tradizionali totalizzano l’84,7% del totale. Il resto quindi è stato investito in strumenti esotici. I paesi non Ocse esaminati, da questo punto di vista, sono più prudenti: gli investimenti tradizionali quotano l’89,6% del totale degli asset.
Di fronte a questi numeri si comprende perché l’OCSE sia parecchio allarmata. “Di fronte a un ambiente di tassi bassi prolungati, i fondi pensioni possono essere spinti a una crescente ricerca di rendimento”, spiega la nota. E questo passaggio può avvenire in tanti modi. Ad esempio spostando fondi dall’obbligazionario all’azionario oppure spostandosi da strumenti tradizionali a quelli esotici, o ancora aumentando la quota di investimenti sull’estero, magari verso paesi che esibiscono rendimenti più attrattivi. E’ stato osservato, ad esempio, che molti fondi di grandi paesi hanno focalizzato investimenti nel private equity brasiliano, oppure su terre e mattone in Canada o prodotti derivati del Regno Unito.
Un’altra cosa utile da osservare è come si siano comportati i loro asset dal 2004 a oggi. Un altro grafico mostra che la crescita del totale degli asset è stata quasi sempre positiva dal 2004 a oggi. Nel 2008, tuttavia i fondi segnarono un calo del 19,4%, peraltro ampiamente recuperato nel prosieguo della crisi. Quando ci fu il crash, insomma, i fondi patirono quanto e più degli altri il terremoto salvo riprendersi.
Ciò dà corpo ai timore OCSE sul comportamento di queste entità. Tanto più oggi, che i tassi sono praticamente negativi e loro devono comunque cumulare ricchezza per soddisfare in futuro i loro sottoscrittori. Specie quelli che hanno piani pensionistici a prestazione definita. Un problema che non riguarda solo i fondi pensione, ovviamente, ma anche le assicurazioni.
L’analisi OCSE ha rilevato che questa ricerca di rendimento si è notata in alcuni paesi che, guarda caso, sono quelli dove i fondi pensione sono fra i più sviluppati. In particolare Brasile, Canada, Regno Unito e Usa. Costoro hanno mostrato la tendenza a spostare i loro investimenti dai tradizionali bond verso investimenti alternativi capaci di maggiore remunerazione e perciò più rischiosi. Ma non sono i soli (vedi grafico). I fondi pensione portoghesi sono quelli che più degli altri si sono rivolti agli investimenti esotici per spuntare qualche decimale di più.
Insomma: per garantire i rendimenti promessi ai sottoscrittori i fondi pensione stanno sempre più giocando il pericoloso gioco della finanza, contribuendo sostanzialmente alla sua instabilità. Che questa roulette sia alimentata con i soldi dei lavoratori, che poi sono quelli chiamati a pagare oggi il prezzo dell’austerità e domani quello di questa instabilità, è solo uno squisito paradosso che deriva dall’aver assimilato la previdenza alla speculazione, quando dovrebbe essere il suo contrario.
Di fronte a questa situazione i celebrati rendimenti di fondi sembrano poco più che una consolazione.
Peraltro effimera.
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