Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Alberto Pasolini Zanelli apparsa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
C’era una volta la Voce dell’America. Radiofonica e poi televisiva. Ascoltatissima nei giorni della Guerra Fredda e ancora di più prima, nei giorni di guerra e basta. Potente, compatta, riconoscibilissima. Quella di adesso passa per i telefonini, le email, gli iPad, i social network, onnipresente, per tutti i gusti e dunque varia, contraddittoria e come più gracile.
Soprattutto, negli ultimi tempi, quella che dovrebbe essere la più autorevole, che esce dalle sale della Casa Bianca. Fievole, dicono in molti, non abbastanza presidenziale. Barack Obama è così: parla troppo e troppo pacatamente, pensa prima di scegliere le parole, cerca di raccontare gli eventi da più di un punto di vista e dunque lo dicono indeciso. Probabilmente c’è del vero, ma non gli giova.
Una metà dell’America non apprezza un leader che sussurra e bilancia. Soprattutto nei momenti di estrema tensione, in faccia alla brutta faccia del terrorismo, quello delle stragi. Naturalmente le denuncia, ma cerca anche di spiegarle e a molti appare esitante. Non intona canzoni di guerra. Spiega, anzi, perché la guerra, almeno in questo momento, non conviene. È così pacato, dicono i più equanimi, anche perché, nel pieno ormai di una campagna elettorale, lui non è candidato perché ha già vinto troppo.
Gli altri, quelli che lottano per la successione, devono farsi sentire meglio o almeno di più e di solito ce la fanno. Ce n’è poi uno che esagera. Che, novellino alla politica, la concepisce come una rissa verbale e ha visto finora questa sua impressione confermata dai fatti. Donald Trump è in testa nella maratona delle primarie repubblicane. Lo è nonostante esageri, nel tono e nella scelta della sostanza, degli argomenti, degli slogan. Li grida, accompagna le parole con una gran copia di gesti, vuole essere soprattutto ascoltato, che si parli di lui, anche se male, meglio che dimenticarsene. Un elenco completo delle sue gaffe richiederebbe libri dalle molte pagine, che certamente più d’uno sta scrivendo.
L’ultimo acuto di questa voce dell’America è stato provocato, comprensibilmente, dall’ultima impresa dei terroristi di qualche Califfato, in California, quasi immediatamente successivo a quello di Parigi. Bisognava rispondere. Obama lo ha fatto alla sua maniera analitica; lui, Trump, a modo suo, con un grido di guerra. Lui sa, o crede di sapere, che una risposta deve essere soprattutto immediata e robusta, contenere una novità positiva. E così ha tirato fuori una proposta delle sue: i terroristi sono musulmani. Trattiamoli dunque come se i musulmani fossero tutti terroristi: teniamoli fuori, non lasciamoli entrare in America, mettiamoli al bando, anche i turisti. Qualcuno ha applaudito, molti hanno trovato che sia troppo e gliel’hanno cantata a chiare lettere.
Di solito erano i democratici ad alzarsi in piedi in nome dei principii e della prassi di una democrazia. Stavolta i più arrabbiati sono i suoi concorrenti repubblicani, che temevano che rimanere indietro nei sondaggi e nelle primarie e si preoccupavano dunque di se stessi, ma ora temono che le sparate di Trump danneggino tutto il partito e portino alla Casa Bianca un «altro Obama», anche se è peggio perché è una donna, sposa di un ex presidente popolarissimo come Bill Clinton. E gliene dicono di tutti i colori, rinfacciandogli voce e gesti. Il senso della contestazione è semplice: «Quello ci rovina». Per tanti motivi: perché dice parolacce durante i comizi, perché spesso prima parla e poi pensa, perché reagisce in modo sproporzionato, perché non ha paura delle gaffe, perché non guarda in faccia a nessuno. Gli ultimi esempi: la rivista Time che ogni anno nomina «la persona dell’anno» non ha scelto lui ma la signora Merkel. «La persona», ha detto Trump, «che sta rovinando la Germania».
La decisione di ributtare a mare i turisti o gli immigrati con Maometto nel cuore dimostrerebbe che egli è un razzista. Come chi? Chissà perché, come Benito Mussolini. Che di difetti ne aveva tanti, ma non quello. Basta guardare un libro di immagini di meno di un secolo fa e lo troviamo a cavallo di un bianco destriero che, leva nel cielo «la spada dell’Islam». E accusarlo di chiudere frontiere e porti dell’Italia agli immigrati dimentica che l’Italia, a quell’epoca, era un paese di emigranti e non di immigrati. Quando si mette piede poi nel campo minato del razzismo, è troppo forte la tentazione di collegarlo al dramma e alle vicende degli ebrei, all’antisemitismo in una parola. Gliel’hanno detto in faccia. A lui, Donald Trump, che ha appena ricevuto da Netanyahu l’invito a visitare Israele. E che subito dopo Natale intende col premier israeliano fare una passeggiatina sulla Spianata del Tempio.