Gli Stati Uniti non sono disposti a “mandare una nuova generazione di americani oltremare per combattere e morire per un altro decennio sul suolo straniero”. Obama lo ha ripetuto fino alla noia. Lo ha ribadito anche dopo l’attacco terroristico di San Bernardino: “Non dobbiamo farci trascinare ancora una volta in una lunga e costosa guerra terreste in Iraq o in Siria. È quel che vogliono gruppi come l’Isis. Sanno che non ci possono sconfiggere sul campo di battaglia (…) Ma sanno anche che se noi occupiamo terre ostili, possono alimentare le insurrezioni per anni, uccidere migliaia dei nostri soldati, spremere le nostre risorse e usare la nostra presenza per attirare nuove reclute”.
Secondo Obama sono certo necessari sforzi ulteriori per bloccare la capacità di finanziarsi dell’Isis, le sue linee di rifornimento ed i rinforzi, e bisogna rendergli più difficile conservare il controllo del territorio, ma quel che davvero farà la differenza sarà solo la soluzione diplomatica della guerra civile siriana (che ha creato il vuoto riempito dallo Stato Islamico) e mandare un significativo contingente di truppe di terra a combattere l’Isis non farebbe che ripetere quel che egli considera l’errore dell’invasione dell’Iraq nel 2003, senza risolvere il problema che abbiamo di fronte. La vittoria sui gruppi di terroristi richiede che siano le popolazioni locali a respingere l’ideologia dell’estremismo “a meno che non pensiamo di occupare questi Paesi in eterno”.
Ma le cose cambieranno se, dopo Obama, alla Casa Bianca arriverà un presidente più “interventista”? C’è da dubitarne. Per almeno quattro ragioni.
Primo. Gli Stati Uniti, per dirla con Michael Mandelbaum, sono diventati una Frugal Superpower. Anche il governo degli Stati Uniti è alle prese con l’invecchiamento della popolazione, un debito enorme, sanità, pensioni e diritti crescenti intestati a baby boomers incanutiti. Entro vent’anni il servizio al debito pubblico, tanto per fare un esempio, supererà l’intero budget della difesa. Il risultato sarà una leadership con mezzi molto limitati.
Secondo. In Asia è in atto una corsa agli armamenti. Laggiù la situazione oggi è più instabile e molto più complessa degli anni successivi alla seconda guerra mondiale. I cinesi stanno costruendo basi per i sommergibili nell’isola di Hainan e sviluppando missili antinave. Gli americani hanno rifornito Taiwan di missili per la difesa aerea e sistemi avanzati di comunicazione militare. Giapponesi e sudcoreani sono impegnati nell’ammodernamento delle loro flotte – in particolare dei sommergibili. E l’India sta costruendo una flotta d’alto mare considerevole. Sono tutte misure per cercare di aggiustare a proprio vantaggio i rapporti di forza. Questo è il mondo che attende gli USA quando avranno completato il ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan.
Terzo. L’America non è più un’isola, protetta dall’Atlantico e dal Pacifico. A ricondurla più vicino al resto del mondo non è solo la tecnologia, ma la pressione della demografia messicana e centroamericana. E, per gli Usa, sistemare il Messico è più importante che riordinare l’Afghanistan. Solo l’offensiva contro i signori della droga è costata 47.000 morti dal 2006, con poco meno di 4.000 vittime solo nella prima metà del 2010.
Quarto. L’estrazione di idrocarburi non convenzionali (shale gas e shale oil) condurrà ad un cambiamento decisivo nei mercati energetici globali e una politica centrata sulla riduzione della dipendenza nazionale dal petrolio estero può fare per l’America e per il mondo odierni quel che fece il contenimento dell’Unione Sovietica nel XX secolo.
Visto che quando il mondo lamenta (“Qualcuno deve fare qualcosa!”), la reazione più immediata e disinteressata non può più venire da Washington e che anche altre politiche di interesse internazionale, come garantire l’accesso globale al petrolio, possono soffrirne, non sarebbe ora che gli europei guardassero in faccia la realtà? Insomma, se il mondo sta andando verso la formazione di blocchi regionali, se strutture continentali come l’America, la Cina e forse l’India e il Brasile hanno già raggiunto la massa critica, l’Europa vuol provare finalmente ad affrontare la sua transizione al rango di unità regionale? Dobbiamo rassegnarci al fatto che l’arrivo della superpotenza europea è probabile che coincida con quello di Godot?