Quello dell’ommità è un tema appassionante. Del resto, non essendo più di moda incarnarne il dettato, non rimane che parlarne. Poi, va da sé, ci si gira dall’altra parte. È accaduto all’ommità quello che è accaduto per il sesso. Da tempo. Ridotto a mezzo per vendere dentifrici, automobili e profumi. Per arrivare al denaro. Mero stimolo, dunque. La carota che acceca il ciuccio offrendogli una meta sempre più lontana.
Volendo proprio parlarne, ecco un titolo per chi si vuole immergere in un’atmosfera senza tempo in cui l’uomo fa ancora l’uomo: – La Luna si mangia i morti -. Siamo in una Sicilia molto particolare, quella trasfigurata da Antonio Russello. Un ambiente da favola, dolce e amaro al tempo stesso. Dove i deserti sassosi, i paesaggi brulli e dorati, le schiene che fanno da saliscendi alle scorribande di un gruppo di giovani pronti alla vita, si combinano con bozzetti di radure, con angoli di mondo che sanno di mandorle, fichi e azzeruoli. Di quei frutti che evocano una bellezza pagana e dionisiaca. Pura e incontaminata. Una bellezza che è solare e decadente. Ambigua, contigua al male. Alla violenza. In cui si perpetua la sopraffazione, il sopruso. Dove lo Stato non esiste. La giustizia ce la si fa da sé, a colpi di schioppettate, misurandosi di destrezza col coltello.
Non è la Sicilia di “In nome della legge”, per dire, quella di Germi dove Paolino, giovane come uno dei tanti carusi protagonisti del libro di Russello, finisce ammazzato dall’omertà, dall’istinto di conservazione di una comunità che preferisce lo status quo, da un codice di giustizia morale incarnata dal massaro Passalacqua. Quella di Germi è mafia di pampini e non di code piatte – certo – ma i personaggi di Russello non hanno niente di storico, di contingente. E dunque non ci sono mafiosi. Verdone, che semina scompiglio durante la festa di paese, che è bello come un arcangelo, che era uno che non la perdonava a nessuno, rimane un brigante. Il rappresentante dei valori della ribalderia, della spavalderia contigui, anche se abbrutiti, ai paladini di Francia.
È lui Verdone, padre del giovane protagonista che racconta la sua infanzia con gli occhi pieni della più rutilante delle Sicilie, al centro dei racconti dei nonni che, davanti alla porta di casa, dove c’è acceso l’acetilene, dove si ride e balla, sono le sentinelle a guardia delle donne fatte vedove da schioppettate andate male.
Suonano i mandolini e sono note ora di accompagnamento, ora di serenata. Suonano i flauti dei caprari che sanno parlare alla Luna. È vita di carne e di sangue. Di sapori e odori. Una vita senza spray deodoranti, che le Parche imbibiscono del miele delle emozioni. A u t e n t i c a.
In cui l’infanzia entra nell’adolescenza come la pasta bianca del pane gonfia di lievito sotto le coperte che non si usano manco d’inverno.
È il racconto della vita dell’uomo che prova a fare l’uomo anche sotto i colpi incessanti dell’istinto di morte che, in Sicilia, lungo i canaloni che dal cuore più intimo dell’isola arrivano fino al mare, arriva sotto le spoglie dello scirocco. Un vento che batte i corpi fiaccando i polmoni, che viola le intelligenze. Un vento metafisico che morde l’anima alterandone l’indole.
In cui l’ommità si tramanda per tramite di gesti, segni, e parole. Attraverso la liturgia del racconto con voce roca. Quella dei nonni, i penati, che sono i sacerdoti della tradizione. Che conoscono tutti gli ulivi saraceni della valle. E di ognuno conoscono lo spirito del morto ammazzato che li abita da sempre. Che conoscono tutti i nomi dei barbieri che hanno pettinato, per tramite del vento del mattino, il frumento che sbuca da sotto le chiome di carrubo.
Che quando spiegano al nipote come com’è morto il padre, Verdone appunto, dicono: – Se lo mangiò la Luna – . – Perché la Luna, quando è rossa, si fa lupinaro, tira fuori le unghie, corre per la strada e urla. E così se lo mangiò – . Voi mitteleuropei chiamatela omertà la lingua che non capite.