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Perché la grazia di Mattarella agli agenti Cia è sacrosanta

Sia pure con tutti i limiti, sempre più pregnanti, che giustamente si impongono in un moderno Stato democratico costituzionale, deve continuare ad esistere una ragion di Stato, ossia “un ampio potere discrezionale, sul cui esercizio è escluso qualsiasi sindacato dei giudici comuni, poiché il giudizio sui mezzi idonei a garantire la sicurezza dello Stato ha natura politica”, per usare le parole della Corte costituzionale nella sentenza 24/2014 sul segreto di Stato?

Se la risposta è positiva, specie in relazione ai rapporti tra Stati sovrani, è ovvio che nessuna obiezione pregiudiziale può essere argomentata contro la decisione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla grazia ad alcuni agenti della Cia coinvolti nel rapimento di Abu Omar, che fa seguito ad un’analoga decisione del suo predecessore Giorgio Napolitano rispetto a un colonnello dell’aviazione Usa coinvolto nella stessa operazione. Del resto casi simili legati alla ragion di Stato si ritrovano in pressoché tutti i settennati precedenti. Un’obiezione pregiudiziale che sarebbe del resto incomprensibile nel momento in cui l’Italia fa valere anche argomenti simili rispetto all’India sul caso dei marò: i rapporti tra Paesi non possono essere risolti solo dai rispettivi poteri giudiziari, ma hanno anche un profilo politico che devono affrontare le rispettive autorità politiche. Negare l’esistenza di un qualsiasi spazio alla ragion di Stato significherebbe mettere il potere giudiziario nel ruolo di dominus dei rapporti internazionali, cosa che nessuno Stato può sensatamente permettersi. Qui, per di più, c’erano effetti paradossali evidenti da rimuovere perché la giustizia italiana, specie grazie alla sentenza della Corte costituzionale sul segreto di Stato già richiamata prima, non aveva punito nessuno degli agenti italiani che avevano collaborato con gli Usa. A pagare, sia pure solo simbolicamente perché nessuno li avrebbe mai consegnati all’Italia, sarebbero stati solo gli agenti americani.

Esiste certo un altro problema, quello dovuto a un’altra sentenza della Corte, la 200 del 2006 sul potere presidenziale di grazia. Essa, per consentire che un Capo dello Stato possa attivarsi anche a prescindere dal ministro della Giustizia, per diminuire la politicità della decisione di un organo di garanzia ha eccessivamente puntato sul significato umanitario della grazia. In realtà la concessione della grazia ha motivazioni multiple e quelle di cui più si discute nell’opinione pubblica sono sempre state quelle con indubbi profili prevalentemente politici. Nessuno dei due Presidenti che si sono succeduti dopo quella sentenza si è del resto trincerato dietro quella ipocrisia. I due comunicati, molto espliciti e trasparenti, di Napolitano e di Mattarella sui casi legati al sequestro di Abu Omar sono in questo sostanzialmente identici: segnalano soprattutto l’identità di vedute col Ministro della Giustizia (e quindi la copertura politica della decisione) e il cambiamento di indirizzo dell’Amministrazione Obama, che, soprattutto, non pratica più le contestate “extraordinary renditions”. Indubbiamente a causa della sentenza del 2006 nessuno potrebbe chiamare in causa il Governo per la scelta operata dal Ministro della Giustizia, a differenza di quanto si può astrattamente fare nelle altre forme di governo parlamentari e persino in quella semi-presidenziale francese. Tuttavia questa anomalia non può impedire al Presidente e al Governo di utilizzare, ove ne ricorra l’opportunità, ad un uso trasparente del potere di grazia in nome della ragion di Stato. Altrimenti avremmo, solo in Italia, uno Stato dimidiato.

Articolo tratto dal blog di Stefano Ceccanti



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