In questi giorni è in primo piano il tema delle politiche mirate al contenimento delle emissioni adottate dai comuni, in particolare l’idea di imporre una riduzione della temperatura ammessa negli edifici, in aggiunta ai blocchi parziali o totali del traffico. Si tratta di azioni pressoché inutili (se non dannose) che, oltre ad essere di difficile verifica, non producono alcun effetto permanente sui costumi della cittadinanza e dei responsabili degli impianti. La risposta alle problematiche ambientali evidenziate nell’ambito del summit di Parigi passa per politiche strutturali, non certo per iniziative mordi e fuggi.
Non c’è dubbio che affrontare il tema dell’inquinamento delle aree urbane non sia semplice, quando non si abbia la fortuna di costruire una città ex-novo. Certo è che, a parte le emissioni provenienti da uomo e animali, le fonti di inquinamento su cui si può agire sono tre: il traffico veicolare, la climatizzazione degli edifici e, in misura minore, gli impianti industriali o di servizio.
La soluzione al primo tema vede come soluzioni fondamentale quella di promuovere il trasporto in bicicletta o pubblico. Entrambe le opzioni richiedono investimenti non trascurabili, perché solo con un impegno pubblico si può riuscire a renderle attrattive e fruibili. Si tratta di una scelta di medio-lungo periodo per gli amministratori, ma avrebbe il beneficio di portare a una reale riduzione delle emissioni e a un miglioramento della qualità della vita nel corso di alcuni anni. Anche politiche per favorire la rottamazione e il car sharing darebbero un contributo positivo, ma di livello decisamente inferiore, sebbene con il potenziale di produrre risultati utili in un tempo minore.
La climatizzazione degli edifici è un tema legato al comfort delle persone. Portare la temperatura a 18°C avrebbe un effetto negativo sia sulle categorie più deboli, sia sulla produttività sui posti di lavoro ad uso ufficio (possiamo prevedere l’uso di stufette elettriche à gogo). Sarebbe inoltre costoso verificare le temperature e non banale decidere l’approccio da adottare (quale temperatura misurare e dove? chi dovrebbe sostenere le spese per le verifiche? come evitare contenziosi infiniti?). In realtà, più che introdurre temperature improbabili, si dovrebbe partire con un’azione di informazione e stimolo all’adozione di buone pratiche tecnologiche e, soprattutto, gestionali, per assicurare che gli impianti funzionino con le prestazioni possibili e le temperature siano tenute ai limiti previsti oggi (20-22°C nelle abitazioni e negli uffici), invece di arrivare a 24-26°C come spesso accade. Una politica strutturale e forte in questa direzione avrebbe il vantaggio di produrre effetti consistenti e positivi in tempi brevi (due-tre anni).
Per il traffico (e parzialmente per la climatizzazione con le pompe di calore) lo spostamento sul vettore elettrico produrrebbe benefici locali aggiuntivi, spostando le emissioni verso le centrali di generazione elettrica (ancora meglio se alimentate a fonti rinnovabili), dunque normalmente fuori città. Ma ci vorrebbero comunque anni per produrre effetti significativi.
Gli interventi sugli impianti tecnici e le industrie, infine, si collegano alle politiche sulle emissioni industriali, sull’emission trading e sull’efficienza energetica. Un’azione sinergica di informazione, controllo e stimolo – unita alla diffusione della sensibilità e della comprensione delle opportunità (facilitata anche dalle diagnosi energetiche realizzate quest’anno in applicazione della direttiva sull’efficienza energetica) –, potrebbe portare a benefici in un periodo di due-tre anni, ma l’effetto sulle città sarebbe ovviamente limitato.
Dunque politiche miracolose che dissolvano la cappa che aleggia sulle nostre città non esistono: sarebbe più credibile proporre l’installazione di mega ventilatori in periferia… In attesa che vento e pioggia risolvano la situazione, conviene adottare politiche lungimiranti, capaci di ridurre il problema nel futuro. Tali politiche andrebbero nel verso dell’accordo sul clima di Parigi e migliorerebbero la qualità della vita nelle nostre città.
La domanda vera è: saranno capaci i nostri decisori nazionali e locali di mettere da parte le boutade elettorali per cominciare a fare qualcosa realmente nell’interesse del Paese? La risposta deve essere affermativa, se vogliamo sperare di risollevare l’Italia, non solo dalle polveri sottili, ma dal pantano in cui l’hanno sprofondata decenni di malgoverno e mancate scelte.