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L’albero di stanze

Tirabusciò, cavasugheri, Scarafone a indicare il telefono. E poi, Nonno Salutare, Nonna Crescenza e il custode, ministro del passato ancestrale, Crocifossi. Sopra tutti, e rigorosamente prima di tutti, il bisnonno Redentore. E poi, ancora, Balthasar con la sua parlata fatta di ndataf, flap flap, aiut marò. E i prozii Alfeo e Sinforosa. Ecco, andrebbe recensito così, alla Arbasino, questo libro: L’albero di stanze di Giuseppe, Lupo edito da Marsilio. Semplicemente giustapponendo in un musicale, quasi onomatopeico susseguirsi di tutti i più curiosi e un po’ desueti vocaboli e nomi che fanno, soli, letteratura.
Già, perché le parole sono pietre e delle pietre è fatto il mondo così come di ossa è fatto il corpo. Non è vero che le pietre non possono parlare, così come non è vero che servono le orecchie per ascoltare. Dentro alle pietre, come dentro ciascuno, vive infatti l’anima di una stella e ogni casa può avere, se solo lo vogliamo, un catino con tanti specchi ruotati in modo tale da poter seguire il cammino degli Astri, le scie luminose delle comete che affastellano di ghirlande il blu del cielo, la notte.
C’è un codice di segni, c’è una sinfonia di suoni che sottende al creato. C’è un lessico fatto di colori, di sapori, di melodie che vengono prima di tutto e andranno dopo di tutto. Questo codice è disponibile a tutti se solo, appunto, abbiamo i giusti occhi e le giuste orecchie. Gli epiteli fini, quella capacità di entrare in risonanza con ciò che di bello ci circonda. Occorre armarsi di stupore e immaginazione, un bagaglio che abbiamo dimenticato ma che abbiamo tutti dietro le spalle nella faretra.
Ecco che Giuseppe Lupo ci viene in soccorso e grazie a questo libro ribadisce forte l’importanza delle radici e del metodo Solera. Già, quello del vino Marsala. Il vino vecchio che si mescola a quello nuovo per fare del nuovo sangue, che fa discendenza, buona semenza. Innesto alchemico perché segni e simboli abbiano un nuovo albergo, una nuova stanza là sopra l’albero di stanze che è già, esso stesso, una favola in quel suo evocare il magico albero di fagioli. Le buone orecchie di un uomo sordo da un parte e la chimica alchemica dall’altra. Babele e la moglie Cècile, appunto.
Questo libro permette di affermare con forza il primato dei buoni libri che sanno conciliare intrattenimento e lirismo poetico. Questo libro è l’occasione per porgere un plauso a Cesare De Michelis, direttore della Marsilio, che giustamente appone, nel risvolto di copertina, una garbata ed elegante introduzione a questo volume.
C’è un tronco e ci sono le radici. E ci sono le foglie che si protendono verso il futuro. La letteratura, per tramite delle parole e delle pietre di Lupo, è la linfa che dà alle foglie quel nutrimento fatto di ricordi trasfigurati. I vagoni di un magico convoglio che sferraglia lungo le rotaie che dal passato ci restituiscono il caleidoscopio armamentario della Tradizione. Parole e immagini con cui innestare il nostro pensiero a quel pensiero. La nostra voce si macchia, così, della raucedine del nonno. Oggi paglia, ieri grano. Loro pietre, noi pane. Ecco.
Si prendano e si godano il loro successo gli autori da best seller che ossequiano il belare del gregge. Portiamoli in vetrina come fanno i Fazio e le Gruber – peraltro con quella punta di ipocrita lungimirante eresia – . Nessuno che rischia nel proporre uno sconosciuto. Di imporre un gusto. Vale solo il viceversa: eleggere la cafonaggine che piace a tutti a standard. A nuovo sistema metrico decimale.
Libri come questo di Giuseppe Lupo valgono una sceneggiatura disneiana. Ci avvolgono di una polvere di fata, abituano a estendere la capacità intima di ascoltare. Di sprofondare come di fronte all’eccitata danza del fuoco nel nostro più recondito retrobottega. Fa di noi lettori, apprendisti stregoni.


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