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Zalone, Renzi, il posto fisso e il Jobs Act

Un film in grado di guadagnarsi una platea ampia come quella dell’ultimo successo di Checco Zalone è per politici ed intellettuali un oggetto ghiotto. Se i primi hanno a fatto a gara ad arruolare il comico pugliese tra le fila dei propri sostenitori, i secondi si sono impegnati a verificare la sintonia culturale tra il pubblico del film e la politica incarnata da Renzi. Nessuna delle due categorie sbaglia perché entrambi gli esercizi si possono svolgere. Fortunatamente però, dopo i ripetuti e talvolta goffi tentativi di lettura dello Zalone-pensiero, ci ha pensato lo stesso regista del film a fornire un’interpretazione autentica, andando al di là della critica di costume e offrendo una chiave politica. In un’intervista rilasciata a Luca Telese, Gennaro Nunziante esplicita in sostanza questo messaggio: il “posto fisso” non è l’ultimo baluardo della sinistra, bensì un’ingiustizia storica alla quale il Jobs Act sta fornendo una risposta che è peggio del problema, creando un mercato del lavoro che passa “da ipergarantito a iperselvaggio”.

La denuncia implicita si può ben intuire in quella promessa beffarda che risuona più volte quando all’impiegato pubblico Zalone viene ripetuto che “ovviamente la seguiremo in un percorso di reinserimento”. E’ forse l’ironia più amara del film, il momento dove si sottolinea il vuoto tra quel posto fisso a vita, insostenibile e ridicolizzato, e un ricollocamento esistente solo come intenzione, come abbiamo cercato di dimostrare con ADAPT evidenziando i limiti progettuali e di visione della riforma. Un abbandono che a chi ha seguito la comunicazione politica del Jobs Act non può che ricordare le parole pronunciate Renzi durante la conferenza stampa del 20 febbraio 2015, quando proclamando la fine dei contratti precari e l’inizio di una nuova era di stabilità per i lavoratori italiani il premier scandì: “Nessuno sarà lasciato solo”.

Lo scenario del personaggio zaloniano è in effetti sufficientemente realista, almeno per le condizioni che il Jobs Act crea attualmente. Volendo sì realizzare una vera flexicurity, l’ultima riforma del lavoro mette però il carro della flessibilità davanti ai buoi della sicurezza, creando il rischio che la prima si manifesti molto prima che la seconda possa contenerne gli effetti negativi. Se quindi il Jobs Act è rivoluzione, lo è come rottura incurante degli equilibri da garantire. Esplicitiamo: avendo liberalizzato il lavoro a tempo determinato e avendo reso praticamente sempre possibile il licenziamento, in assenza di una rete di politiche attive davvero in grado di gestire la transizione dei lavoratori a un nuovo impiego, quella stabilità del lavoro che il governo mette al centro dell’attenzione come prova della bontà del Jobs Act potrebbe rivelare presto la sua inconsistenza. Soprattutto considerando che il valore dello sgravio contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato (ma senza articolo 18), ossia la misura che ha avuto sinora effetti più concreti, è ora più che dimezzato.

Per il Governo la battuta ripetuta nel film di Zalone suona quindi come un campanello d’allarme: il rischio che quella promessa disattesa diventi troppo ampio. Ha già coinvolto parecchi giovani iscritti al programma di politiche attive a loro dedicato col nome impegnativo di “Garanzia Giovani”. Ora che con il Jobs Act la promessa dell’implementazione di un sistema veramente efficace di politiche attive viene estesa a tutti i lavoratori, risulta quasi banale sottolineare l’importanza del compito per la credibilità del Governo.

A Renzi l’argomento non risulta di facile gestione. Di Garanzia Giovani disse esplicitamente di parlare poco proprio perché malfunzionante. Tuttavia il nuovo sistema di politiche attive e la nuova agenzia preposta non dovranno solo funzionare bene, ma dovranno anche comunicare attentamente. Perché si raggiungano livelli sufficienti di efficienza ci vorrà diverso tempo, sia per la lenta ripresa dell’occupazione, sia per lo sforzo organizzativo richiesto. In questo frangente converrà quindi adottare subito una strategia che sia in grado si trasmettere l’importanza della rete e l’impegno dei suoi attori, ma senza illudere nessuno. Si dimostrerebbe così di aver messo davvero al centro il mercato del lavoro, onorando da subito il valore simbolico del ricollocamento. Giacché non sono le tutele crescenti, ma una vera continuità del lavoro a costituire una buona contropartita per il defunto posto fisso, l’eredità che le politiche attive dovranno colmare è infatti quella niente meno del famigerato articolo 18.


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