Guardo un grafico elaborato da RBS, che mostra l’andamento del conto corrente della bilancia dei pagamenti dei principali paesi, e mi convinco che la crisi del petrolio ha già avuto il suo esito più rilevante nella geopolitica del credito internazionale: i paesi esportatori di petrolio non figurano più, infatti, fra i grandi creditori internazionali. In sostanza, i prezzi declinanti hanno finito con l’erodere la loro posizione netta corrente e questa situazione, qualora dovesse perdurare, non mancherà di avere conseguenze sulla loro stabilità finanziaria. Il caso dell’Arabia Saudita, finita di recente nel mirino della solite agenzie di rating e del Fmi, è assai rappresentativo.
Che questo fatto abbia una valenza storica lo si può osservare guardando il fenomeno in una prospettiva più ampia. Un altro grafico, che mostra l’andamento degli squilibri globali dal 1980, evidenzia infatti con chiarezza che una situazione del genere si era verificata solo nella prima metà degli anni ’80, perdurando per quasi tutti i ’90. All’inizio del XXI secolo i petrolieri tornano a figurare stabilmente fra i grandi creditori e vi appaiono fino al 2014, per l’ultimo anno. Oggi nel club dei grandi creditori sono rimasti sostanzialmente in tre: la Cina, la Germania, che vede crescere la sua posizione nel 2015, e il Giappone, che la migliora rispetto al 2014, ma è certo ben lontano dalla capienza degli anni ’80 e dei primi ’90.
A fronte di questa posizione creditoria, nel 2015 ci sono due grandi debitori, ossia gli Usa, il cui deficit di conto corrente viaggia stabilmente intorno ai 500 miliardi di dollari, e il Regno Unito, che ne aggiunge oltre un altro centinaio. Il resto del deficit se lo dividono altri paesi.
Poiché il conto corrente misura sostanzialmente la differenza fra quanto un paese incassa dall’estero e quanto spende all’estero nel corso di un anno, questa situazione implica che il buon funzionamento del sistema dipende sostanzialmente dalla volontà dei creditori internazionali di sostenere il deficit dei debitori. L’uscita di scena dei petrolieri, che sono tutti paesi emergenti più o meno problematici, complica perciò il riaggiustamento globale.
Poiché gli attivi tedeschi coincidono sostanzialmente con quelli dell’Ue, ci troviamo di fronte a una situazione in cui un blocco euro-asiatico è diventato il principale creditore di un blocco euro-atlantico. Se volessimo scomodare la storia, si potrebbe osservare la curiosità di un mondo in cui i vincitori dell’ultima guerra si sono trovati grossomodo ad essere debitori di chi l’ha persa. Ma a ben vedere è una situazione che, tra alti e bassi, si trascina dalla fine degli anni ’50 e che dai primi anni ’80 è divenuta sostanzialmente sistemica, essendo correlata al (non) funzionamento del sistema monetario internazionale. A parte un breve intervallo a fine anni ’80, infatti, gli Usa sono sempre stati debitori netti.
La questione è se la geopolitica dei saldi correnti finirà con l’avere effetti sugli equilibri internazionali, e quindi monetari e politici, oppure no. E molto dipenderà dalle decisioni che matureranno in Asia, visto che circa il 40% del debito pubblico americano è collocato all’estero e in gran parte proprio fra Cina e Giappone.
Bisognerà vedere, in sostanza, se sarà il Fmi a guida americana a svolgere il ruolo di grande stanza di compensazione degli squilibri, come pare si stia attrezzando a fare, oppure se nascerà davvero un asse fra Europa e Asia per costringere il Grande Debitore a mettere ordine nel sistema monetario utilizzando altri strumenti.
Per adesso una cosa sembra certa: finché il Grande Gioco si reggerà in piedi nessuno lo metterà in discussione. E i petrolieri?
Si arrangino.
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