Nulla sarà più come prima, dicono in molti. Il 2008 ha segnato una cesura netta nelle nostre pratiche economiche e ci vorrà del tempo prima che la nuova normalità – il new normal, come viene chiamato – venga digerito dall’apparato teorico che sosteneva la vecchia normalità. Tutti i modelli che gli osservatori usano per descrivere la realtà dovranno essere sostanzialmente riscritti, tenendo conto di come la nostra società si cambiata in questi anni tormentati, anche e soprattutto in conseguenze della crisi.
La buona notizia è che i decisori iniziano a tenerne conto. In uno speech recente (“Debt, Demographics and the Distribution of Income: New challenges for monetary policy“) Gertjan Vlieghe, componente esterno dell’MPC della Bank of England individua in tre fattori i driver di questa mutazione, che non è esagerato definire epocale: il debito, la demografia e la distribuzione della ricchezza. Sono le tre D che hanno finito con l’invalidare il vecchio pensiero di un mondo dove l’economia veniva inquadrata in un percorso stabile di crescita, con il prodotto sempre più o meno vicino al suo livello potenziale, e dove le crisi altro non erano che deviazioni temporanee da questo percorso. Alla politica monetaria veniva affidato il compito di correggere queste deviazioni utilizzando gli strumenti consueti. Ed è proprio questa visione che è entrata in crisi: “Io credo – dice il nostro banchiere – che possa essere cambiata in maniera stabile la relazione fra crescita e tassi di interesse“.
Il nostro si è convinto che l’effetto della tre D sul contesto economico abbia finito col creare un ambiente dove “un certo livello di crescita possa coesistere con tassi di interesse sostanzialmente più bassi che in passato” e che “questo ambiente possa persistere per anni, se non per decenni”. D’altronde solo persone con scarso senso della realtà potrebbero trascurare la circostanza che ormai i debiti, pubblici e privati, sono diventati eterni, che l’andamento della demografia conduce a un progressivo invecchiamento della popolazione e che il combinato disposto sta producendo una costante crescita della disuguaglianza dei redditi. Il combinato delle tre D ci conduce alla quarta: il declino, ossia l’esito della nostra vicenda economica, che sostiene l’ipotesi della cosiddetta stagnazione secolare, che peraltro è stata teorizzata 80 anni fa.
Ciò avrà alcune conseguenze, a cominciare dal fatto che “l’economia potrebbe non tornare più al suo livello pre crisi di crescita e tassi di interesse”. Con la complicazione che i modelli economici tuttora usati per rappresentare la nostra realtà sostengono il contrario, per la semplice ragione che le tre D ancora non vengono contemplate.
Vi parrà assurdo, ma è così che va il mondo. Ciò che è ovvio deve essere digerito, assimilato e trasformato in analisi teoriche, quindi inglobato in strumenti predittivi (un modello) che trasformano l’ovvio in prassi. Il problema è che questo processo richiede anni, durante i quali persistiamo nell’analisi della realtà con strumenti errati e in cui il nostro dibattere pubblico, già naturalmente retorico, viene nutrito da interpretazioni viziate della realtà.
Sicché, scorrendo lo speech, leggo divertito che “il debito è importante” e che questa dichiarazione “ancora controversa un decennio fa” lo è molto meno adesso. Ecco l’ovvio irrompere nel pensiero economico tradizionale. “Abbiamo ampie evidenza che le famiglie e le imprese con alti livelli di debito riducono le spese più bruscamente degli altri quando il ciclo economico diventa avverso”. Ma davvero? Con l’aggiunta che tale evidenza microeconomica ha effetti macroeconomici: “Le recessioni seguite a un accumulo di debito sono più severe e durature di quelle senza”. Per rimediare a un eccesso di debito ci sono due strade che si possono seguire: una dolorosa ristrutturazione, rapida e spietata, o tenere i tassi bassi per fare in modo che, a parità di debito, l’incremento del reddito sia superiore e così la montagna piano piano di appiattisce. Si è scelta questa strada, è chiaro a tutti. Perciò i tassi dovranno rimanere bassi a lungo, come non si stancano di ripeterci i nostri banchieri centrali. La strada intrapresa, dice il nostro, funziona talmente bene che il debito del settore privato non finanziario britannico, salito dal 120% del Pil a 190% prima della crisi, ora è sceso addirittura al 160%. Osservo solo che ci sono voluti otto anni di tassi vicino a zero per abbattere il debito del 15%, mentre erano bastati un pugno di anni per farlo cresce quasi del 60%. Il che mi suggerisce che i debiti siano alquanto inelastici ai tassi bassi. Questi ultimi servono semmai a renderli sostenibili. Sorvolo, come d’altronde fa il nostro banchiere, su quanto sia cresciuto nel frattempo il debito pubblico.
La seconda D è ancora più divertente, per quanto è ovvia. “Come il debito, la demografia può avere un effetto di lungo termine sulla relazione fra crescita e tasso di interesse”, con l’aggravante che tale effetto può persistere anche più di quello dell’accumulo di debiti “visto che le transizioni demografiche persistono per decenni”. Il combinato disposto fra aumento della longevità e diminuzione della fertilità è ciò che sta guidando questa evoluzione, che abbiamo visto essere incerta non soltanto quanto agli esiti, ma anche relativamente alla sua stessa dimensione. Dal punto di vista che interessa al nostro relatore, ossia la relazione fra crescita e tasso di interesse, una popolazione più anziana, che vuol dire una crescita più lenta della popolazione in età di lavoro, implica che serve meno capitale e perciò investimenti più lenti che “finiscono ancora col fare abbassare i tassi di interesse“. Un modello sviluppato di recente, basato sui dati dei paesi del G7 a partire dal 1990 ha calcolato nell’1,5% il ribasso del tasso di interesse provocato dai cambiamenti demografici, con un altro 0,5% in meno potenziale di là da venire. E poi c’è il caso del Giappone, che il nostro banchiere giudica una sorta di avanguardia, visto che quello che è successo lì nell’ultimo ventennio sta accadendo adesso nel resto delle economie avanzate.
La terza D è probabilmente fra le più popolari oggidì: la distribuzione della ricchezza. Il nostro ammette che si tratta di di un argomento dove la congettura è prevalente, rispetto agli altri. E tuttavia accredita l’idea che così come “la politica monetaria ha effetti redistributivi“, anche la distribuzione della ricchezza possa avere effetti sulle politiche monetarie. Citando il solito Piketty e altri, il relatore osserva che la concentrazione della ricchezza sposta maggiore potere d’acquisto su chi ha meno propensione a spendere, con effetti intuitivi sui tassi di interesse. Se c’è maggior risparmio offerto calano i prezzi del denaro, lo scriveva già Smith nel XVIII secolo. Qualcuno più di recente ha calcolato che un aumento di due punti del livello di risparmio abbassa i tassi dello 0,5%.
Insomma: le tre D cospirano per tenere i tassi bassi o, che è lo stesso, per tenere la crescita bassa. Questa nuova normalità, che le banche centrali ormai stanno trasformando nella narrazione prevalente del nostro tempo, ha implicazioni di policy evidenti. La prima riguarda proprio le banche centrali, che nel new normal trovano la legittimazione teorica dei loro comportamenti non convenzionali. E poi per il resto di noi, che il nostro banchiere analizza con estrema accuratezza.
La prima sarà la rivoluzione dei modelli predittivi, ormai inadatti a interpretare la realtà, che sono sicuro lascerà indifferenti molti di voi, ma che però non dovrebbe, atteso che da quello che partoriscono i modelli scaturiscono molte decisioni politiche. Se continueremo a usare i vecchi modelli rischiamo di compiere gravi errori.
Ma ciò che conta è la visione sociale che tale mutazione portà con sé. “Non possiamo contare sul fatto che il futuro somiglierà al passato”, dice. “Dobbiamo essere preparati alla possibilità che i tassi di interesse reali rimangano sotto il livello storico per molto tempo, anche nel caso che la crescita torni anche poso sotto la sua media storica”. Ciò pone alle banche centrali, che sulla manovra dei tassi hanno costruito la loro fortuna politica, un grande problema di strumenti, visto che “l’acquisto di asset è un sostituto imperfetto del taglio dei tassi”.
Sarebbe tutto un problema da banchieri centrali se fosse tutto qua. In fondo a noi che importa se i tassi rimangono bassi a lungo? Anche qui, un supplemento di osservazione basta a comprendere che i tassi bassi a lungo implicano un cambiamento profondo del nostro agire economico. Detto in parole povere, con i tassi bassi a lungo termine cambiano prassi che si sono evolute nel corso dei secoli.
Le quattro D, agendo insieme, possono terremotare il nostro sistema economico.
Sono i moderni cavalieri dell’apocalisse.
Twitter: @maitre_a_panZer