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Il Family Day, Beppe Vacca e l’emergenza antropologica

Commentando il Family Day sul Corriere della Sera, Beppe Vacca – mio carissimo amico e insigne studioso di Antonio Gramsci – ci ha invitato a non sottovalutare la sensibilità mostrata dai manifestanti del Circo Massimo nei confronti di quella vera e propria “emergenza antropologica” che è originata dagli sviluppi della tecnica e dalla stessa possibilità di manipolare la vita.

Ricordo che il 16 ottobre 2011 Vacca, insieme a Mario Tronti, a Paolo Sorbi e al compianto Pietro Barcellona, in una lettera aperta pubblicata dall’Avvenire e dal Foglio avevano denunciato questa emergenza come la manifestazione più grave e, insieme, la radice più profonda della crisi della democrazia. In un articolo sul Riformista mi permisi di replicare confessando il mio stupore. Avevo infatti sempre pensato che il declino delle democrazie parlamentari fosse legato alla loro impotenza di fronte alle diseguaglianze distributive, alle tempeste finanziarie, ai cambiamenti del lavoro, allo svuotamento delle forme tipiche della politica del Novecento (in primis, sindacati e partiti di massa). Per i quattro prestigiosi intellettuali, invece, quel declino andava imputato anzitutto ad una sorta di antinomia radicale tra morale e scienza, che marchierebbe i processi di secolarizzazione.

Ho menzionato l’episodio perché ritengo che questa lettura della modernità trovi ascolto anche adesso in un certo milieu culturale interno o vicino al Pd. In estrema sintesi, la tesi è la seguente. Se c’è un’emergenza antropologica, solo un’alleanza tra credenti e non credenti, tra fede e ragione, è in grado di affrontarne le sfide più impegnative. Fin qui Nihil sub sole novi, come recita l’Ecclesiaste. La novità è che tale alleanza viene riproposta come l’orizzonte strategico del Pd. Vale a dire: uniamo le risorse spirituali di credenti e non credenti per mettere in campo una diversa laicità, che sappia opporsi con fermezza al nichilismo e all’individualismo che spadroneggiano nella società contemporanea.

Stimo gli studiosi i quali gettano un allarme sulla catastrofe etica che rischierebbe di travolgere la civiltà industriale. Ma non mi convince né il tono oracolare e profetico, né l’impasto di pensiero negativo e di comunitarismo cattocomunista, di antiliberalismo della loro polemica. Si tratta di opinioni rispettabilissime, beninteso. La costruzione di un umanesimo condiviso, una positiva interlocuzione con il mondo cattolico, sono questioni cruciali per la sinistra italiana. Dubito, tuttavia, che il Pd possa uscire dallo stato soporifero in cui versa infondendogli quel “supplemento d’anima”, come direbbe Henri Bergson (Giuliano Amato – più prosaicamente – lo aveva chiamato, usando una metafora automobilistica, “una marcia in più”), offerto dal formidabile patrimonio dottrinario del cattolicesimo.

Tutti affermano che la stagione del “ruinismo” è ormai alle nostre spalle (nonostante Papa Francesco, io non ne sarei così sicuro). Tuttavia, non credo che basti coccolare il cardinale Bagnasco riconoscendo la rilevanza pubblica del magistero dei vescovi per convincerlo a cambiare cavallo nello scacchiere politico domestico. Su quello che viene presentato, in fondo, come una specie di nuovo compromesso storico sotto le ali benedicenti delle gerarchie ecclesiastiche, potrebbe pesare il sospetto che si tratti soltanto di una ennesima variante dell’interpretazione della religione come impostura necessaria per governare gli uomini, teorizzata da Machiavelli.


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