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Tutta colpa di Yellen, Kuroda e Draghi la febbre dei mercati?

E se avesse ragione Jens Weidmann? Se la politica monetaria fosse arrivata a un punto limite, oltre il quale c’è davvero quella terra incognita tanto piena di insidie e di incertezze da rendere l’ulteriore cammino troppo pericoloso? Se ne discute da tempo. I keynesiani hanno già messo in guardia dai rischi della trappola della liquidità, una palude così gelatinosa da impedire ogni movimento. E i monetaristi sono scandalizzati da quella vera e propria offesa al mercato rappresentata dai tassi d’interesse negativi. Lo ha scritto sulla Repubblica Alessandro Penati che parla di “danni collaterali” della politica monetaria. Ma diamo un’occhiata a qualche dato di fatto cominciando dal Giappone che con la Abenomics ha abbattuto per primo il tabù.

I tassi negativi hanno allarmato gli investitori asiatici, scrive Shah Giliani per Wall Street Insights & Indictments, e lo yen invece di scendere per aiutare le esportazioni si è persino rivalutato. Nell’eurozona, la Bce continua a pompare moneta ma non riesce a stimolare la crescita. La liquidità finisce alle banche le quali hanno in pancia troppi crediti inesigibili e crediti marci, dunque il denaro preso a costo zero dalla banca centrale serve come cuscinetto anti-crac. Negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha tentato di sgonfiare la bolla azionaria alimentata da anni di moneta abbondante e a buon mercato, ma il timido aumento dei tassi, invece di indicare la via verso il ritorno alla normalità, ha suscitato incertezza e alimentato l’instabilità.

Può darsi che, come continua a ripetere Mario Draghi, le banche centrali abbiano ancora munizioni sufficienti a bloccare la deflazione e rilanciare la domanda, tuttavia sembra chiaro che il loro potere d’influenza sui mercati si è ridotto, e le borse non reagiscono più come vorrebbe chi batte moneta.

Intendiamoci, dietro la nuova fase, sia essa un vero e proprio cambio di ciclo o un periodo di riassestamento, non ci sono soltanto cause monetarie. C’è il rallentamento della Cina (forse molto maggiore di quanto non dicano le cifre ufficiali), c’è il crollo dei prezzi e delle materie prime, in gran parte provocato dalla stessa frenata cinese, che fa precipitare i redditi dei paesi in via di sviluppo e persino di quelli arabi. C’è la lunga pausa americana, dopo cinque anni di crescita non tumultuosa, ma ininterrotta, e nel bel mezzo della campagna elettorale più bizzarra dai tempi di Ronald Reagan. E soprattutto, c’è il fallimento economico dell’Europa incapace di prendere in mano il testimone dello sviluppo.

In un articolo in prima pagina pubblicato nell’edizione del fine settimana, il New York Times scrive chiaramente che l’eurozona non è riuscita a tirarsi fuori dal buco nel quale l’aveva gettata la crisi globale. L’articolo è corredato da un grafico eloquente sulla disoccupazione, dato chiave per capire come butta la ricchezza di una nazione. Ebbene nel 2008 era al 9% della forza lavoro sia negli Stati Uniti sia nell’area euro, oggi la differenza è doppia: cinque per cento negli Usa, dieci nell’Eurolandia.

E’ colpa dell’austerità fiscale? Non solo. I conti pubblici americani sono migliori di quelli medi europei. Il fatto è che gli Stati Uniti hanno reagito subito e in modo efficace al crac del 2008, mettendo in gioco imponenti risorse pubbliche che poi sono state recuperate nel giro di due-tre anni. L’Europa (anche quella fuori dall’euro) non lo ha fatto. Le banche vengono salvate caso per caso, paese per paese. Le politiche fiscali sono pro-cicliche (cioè si è tirata la cinghia quando invece bisognava allentarla). Manca una strategia coordinata, errore numero uno di carattere politico, non tecnico-economico.

Ormai è diventato senso comune in Italia attaccare la miopia tedesca. E senza dubbio c’è del vero. Ma la realtà è che, in mancanza di una linea europea, è prevalsa la difesa dell’interesse nazionale. Lo hanno fatto a Berlino con la loro linea di rigore fiscale e con il sostegno al complesso bancario-industriale, pilastro del Modell Deutschland. Lo hanno fatto a Parigi rifiutando sistematicamente la disciplina di bilancio e la liberalizzazione del mercato del lavoro e dei servizi. Lo ha fatto la Spagna. E lo ha fatto anche l’Italia.

Naturalmente, la politica del si salvi chi può ha favorito i più forti. E l’Italia, che è tra i deboli, ha dovuto sottoporsi a un vero e proprio salasso. E’ costato due punti e mezzo di prodotto lordo, però non è servito a ridurre il debito pubblico. Anzi, il macigno che blocca lo sviluppo è diventato più pesante. Su questo la Germania ha ragione: il debito è troppo alto. Non si può rispondere che sarà la crescita a ridurlo, intanto perché la crescita non è forte a sufficienza, come dicono gli ultimi dati, e poi perché il debito paralizza qualsiasi politica economica che voglia rilanciare la domanda, infine la storia, anche quella recente, dimostra che in Italiasono aumentati in parallelo il pil e il debito perché le uscite dello stato sono sempre state superiori alle entrate: il balzo impressionante della pressione fiscale non è riuscito a colmare il divario.

Il circolo vizioso nel quale siamo incastrati, quindi, va spezzato. E questo spetta al governo italiano. Inutile sperare in Bruxelles. Inutile attendere il piano Juncker ormai scomparso nelle nebbie del Reno e della Mosella. Bisogna agire in modo energico e a quel punto sfidare anche la dittatura dello zero virgola che Matteo Renzi tanto odia. Come? Alcune riforme come quella del mercato del lavoro sono importanti. Però la riforma fondamentale per ridurre il debito, quella della spesa pubblica, è stata rinviata sine die. Non per insipienza, ma perché troppo sensibile politicamente. Se si abolisce l’articolo 18 protesta la Fiom, tagliando la spesa si blocca il mercato politico.

Il fallimento economico dell’Eurolandia mette in discussione anche la Bce? Sappiamo bene che Mario Draghi ha salvato l’euro nel luglio del 2012 con la sua frase magica (“faremo tutto quel che è necessario per difendere la moneta unica”) e così facendo ha stoppato l’attacco ai debiti sovrani. Ma tra le sue parole e l’inizio di una politica monetaria aggressiva sono passati comunque molti mesi preziosi. La Bce poteva agire in modo più rapido? La stessa domanda si pone per l’acquisto di titoli. E adesso per le “ulteriori misure” annunciate già da un trimestre, che stanno alimentando un’attesa forse eccessiva per le decisioni da prendere ai primi di marzo.

La hybris dei banchieri centrali sta diventando, dunque, il bersaglio del nuovo war game condotto dai mercati finanziari che sputano sul piatto dove hanno mangiato. Può darsi che Bernanke, la Yellen, Kuroda o Draghi si siano sentiti onnipotenti e scoprano solo oggi i loro limiti di fondo. Ma se perdono forza, efficacia, autorevolezza, in un mondo privo di leader politici forti, efficaci, autorevoli, che cosa ci resta?

Stefano Cingolani

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