La spirale in cui si è avvitata la crisi siriana mette a nudo l’avvento dell’era post-americana. L’amletismo di Washington e la sua incapacità di giostrarsi in un gioco mutato dall’irrompere della potenza russa rischiano ora di trasformare una guerra per procura in uno scontro globale dagli esiti imprevedibili. Insofferenti per una linea americana giudicata imbelle, sconcertati per il dietro front di Obama sulla posizione secondo cui il presidente Assad dovrebbe uscire di scena, i Paesi che sostengono il fronte dei ribelli preparano nuove manovre finalizzate a riequilibrare le sorti di un conflitto ora drogato dai bombardamenti russi. La possibilità che Assad riconquisti i territori perduti negli ultimi quattro anni, costringendo al ripiego se non alla disfatta le forze di opposizione, apre le porte ad una intensificazione degli sforzi dei loro sponsor – potenze del golfo e Turchia in primis – anche con il ricorso, già annunciato, a truppe di terra.
Le conseguenze sarebbero drammatiche. Vi sarebbe, anzitutto, un nuovo esodo di profughi verso le ormai sature regioni di confine, con inevitabili nuovi viaggi della speranza verso le coste europee. Non è escluso che questo scenario sia stato previsto fin dall’inizio da Putin, che nei migranti vede lo strumento perfetto per spaccare l’Unione Europea, con la quale è ancora aperto il contenzioso ucraino, e per ingrossare le fila dei movimenti populisti che con la Russia nutrono ottimi rapporti. In questa sequenza rientra anche la probabile discesa in campo turca, che assiste con malcelata ostilità al coordinamento tra russi e curdi . La possibilità sempre più concreta che possa nascere un’entità curda (Rojava) unificata a sud della Turchia è anatema per Erdogan, che ha da tempo mobilitato il suo esercito per vanificare una mossa che galvanizzerebbe quei curdi di Turchia con cui è di nuovo ai ferri corti.
Quanto all’intervento dell’Arabia Saudita, le cui avanguardie sarebbero già schierate nella base di Incirlik in Turchia, a tutto servirebbe fuorché alle finalità con cui è stato annunciato, vale a dire opporsi al califfato. Esso riporterebbe semmai alla luce del sole uno degli ingredienti chiave di questo conflitto: lo scontro settario tra il fronte sciita e quello sunnita, con il primo che vede nella Siria il proprio prolungamento sul Mediterraneo e il secondo che tenta di ostacolarne ogni proiezione al di là del suo alveo iraniano ed iracheno. Schierandosi con l’asse sciita, la Russia ha agito con destrezza, certa di aver afferrato i cardini della nuova dottrina americana: il disengagement, la refrattarietà agli interventi militari nelle periferie del mondo e la volontà di dar vita ad un nuovo equilibrio in Medio Oriente in cui le frizioni tra le componenti sciite e sunnite si compensino.
Peccato che, a rimanere fuori da questo quadro, sia proprio la forza che tutti, a parole, dichiarano di voler sgominare: i jihadisti. Da questo marasma lo Stato islamico uscirà rafforzato, potendosi ergere a baluardo dei musulmani oppressi dai giochi delle grandi potenze. Le rivalità che si stanno scontrando sulla pelle del popolo siriano porteranno al califfo nuove simpatie, risorse e reclute, con il rischio di nuove azioni terroristiche in tutti i Paesi impegnati in questo risiko incandescente.