Saranno anche uno strumento di partecipazione democratica, ma le primarie per il Pd si stanno trasformando in una specie di Caporetto politica. Non è questione di brogli o di regole approssimative. È questione di un partito che non c’è. Matteo Renzi è certamente il re di Palazzo Chigi, ma nei feudi locali valvassori e valvassini fanno il bello e il cattivo tempo. Potere assoluto al centro, anarchia in periferia: questa è oggi la condizione in cui vivacchia un gruppo dirigente eterodiretto da un capo narcisista, troppo narcisista.
Quanto è accaduto nella città partenopea ne è una lampante testimonianza. Presidente e vicesegretari del Pd che si precipitano a tappare un potenziale vaso di Pandora per gli equilibri interni di un partito già sull’orlo del collasso. Ma cosa credono di aver risolto in questo modo? Antonio Bassolino farà una sua lista civica, e le già scarse probabilità di successo alle prossime elezioni comunali si ridurranno a zero. Mi viene da dire, absit iniuria verbis, che quelle di Napoli rischiano di diventare primarie jellate per Renzi.
Del resto, se è vero che tutti gli italiani condividono un patrimonio comune di superstizioni, da quella sul ferro di cavallo ai fantasmi, ce n’è una esportata inconfondibilmente in tutta la penisola proprio da Napoli. Si tratta della jettatura. Secondo l’eminente antropologo Alfonso M. Di Nola, per jettatura si deve intendere l’influenza nefasta esercitata da uomini – ma anche da oggetti e animali – su altri uomini, intenzionalmente o involontariamente. Il suo discredito è legato a un presunto potere speciale dell’occhio, capace di sprigionare un influsso distruttivo, ossia quel “gettare il male” da cui deriva il termine (“Jettatura”, in “L’identità degli italiani”, a cura di Giorgio Calcagno, Laterza, 1998).
In verità, nelle culture popolari domestiche lo jettatore non opera soltanto attraverso lo sguardo, il cosiddetto “occhio secco” dei dialetti meridionali, ma anche attraverso un insieme di segni distintivi che formano uno stereotipo da aggiungere ai celebri “Caratteri” di Jean de La Bruyère (1688): il vestire di nero, come nel lutto, il portare occhiali scuri che nascondono gli occhi, apparire magro e allampanato col volto triste e rassegnato, parlare con voce querula, fare discorsi sulle sventure personali o di persone conosciute. È il personaggio, per capirci, immortalato da uno straordinario Totò nel film “Questa è la vita” (1954).
Come osserva Di Nola, le radici storiche del fenomeno sono remote, almeno quanto la condanna dello sguardo geloso del bene altrui. Gli antichi lo chiamavano “invidia”, che etimologicamente significa “guardare contro”, proprio come il termine ebraico “qinah”. Assai diffusa anche nel Medioevo, nel Settecento napoletano l’angoscia da jettatura assume forme parossistiche. “Perché mai – si domandava Benedetto Croce – si parlò e si scrisse tanto della jettatura, a segno che questa parola […] diventò nota anche ai forestieri, come si vede nei libri di Dumas e Gautier?” (“Quaderni della Critica”, 1945). In questa moda dilagante il filosofo scorgeva un intimo piacere, un gusto perverso di certa umanità nel voler trovare argomenti di conversazione poco impegnativi su cui ridere e spettegolare.
Il rischio che questa moda possa dilagare anche ne Duemila napoletano c’è, e se fossi il premier non lo sottovaluterei.