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In memoria di Aldo Moro

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Nell’anniversario del suo rapimento, dedico queste note telegrafiche al mio conterraneo Aldo Moro. Il costituente e costituzionalista pugliese è stato una personalità eminente della nostra storia repubblicana, e a lui si deve anche l’apertura della prima stagione politica del centro-sinistra (allora si usava il trattino). Quando rievocano la sua figura, tuttavia, molti continuano colpevolmente ad ignorarlo. Il 5 novembre 1963 Pietro Nenni annota nel suo diario: “Si apre la crisi che per la prima volta, a parte la parentesi del 1944-47, dovrebbe portare i socialisti al governo. È quanto ho voluto con una lunga e tenace battaglia, motivata dalla convinzione che senza un compromesso con la Dc, e in senso sociale con i nuovi ceti medi del parastato, la classe della democrazia è troppo debole per far fronte alle minacce della destra. D’altra parte, la nostra posizione era divenuta quasi drammatica tra l’integralismo democristiano, e forse in senso più vasto cattolico, e quello comunista: le due chiese sostanzialmente alleate contro il terzo incomodo, cioè contro i socialisti, i laici del movimento operaio”.

Esattamente un mese dopo, conclude: “Eccomi da stasera vicepresidente del Consiglio nel primo governo Moro […] È una vittoria politica nella battaglia che ho cominciato nel 1956 per fare uscire il Psi da un pericoloso isolamento […]”. È nel 1960- dopo il fallimento del governo presieduto da Fernando Tambroni- che Moro e Nenni gettano segretamente le basi della nuova formula politica, e concordano le sue tappe intermedie: astensione socialista sull’esecutivo delle “convergenze parallele” (luglio 1960-febbraio 1962), varato con il voto favorevole del Psdi, del Pli e del Pri; sostegno esterno al successivo governo Fanfani (febbraio 1962-maggio 1963), a cui si dovrà la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma della scuola media inferiore e l’introduzione della “cedolare secca” sui titoli azionari.Misura, quest’ultima, avversata aspramente dagli ambienti confindustriali.

L’intesa tra il quarantasettenne leader democristiano e l’anziano leader socialista era sorretta da un saldo rapporto di stima e di amicizia. Culturalmente molto distanti tra loro, li accomunava l’esigenza di una svolta riformista per modernizzare il Paese. Alla fine degli anni Cinquanta, l’Italia era cambiata profondamente. Il boom economico aveva diffuso un certo benessere. Per altro verso, storiche arretratezze -a partire da quella meridionale- e vecchie ingiustizie distributive si erano fatte più stridenti, e avevano riaperto il problema del modello di sviluppo nazionale. Questione sollevata con forza da Pasquale Saraceno al convegno democristiano di San Pellegrino (settembre 1961), che sarà letto come una specie di battesimo ideologico del centro-sinistra. Incoraggiato dalle aperture dottrinarie e sociali dell’enciclica di Giovanni XXIII “Mater et Magistra”, l’economista di Morbegno prova a innovare la tradizione del solidarismo cattolico, ipotizzando un compromesso più avanzato tra “libero arbitrio” dell’operatore privato e “azione provvidenziale” del decisore pubblico.

L’enciclica giovannea ispirerà anche la relazione di Moro al congresso Dc di Napoli (gennaio 1962), che ribadisce il primato della politica e il suo l’irrinunciabile dovere di correggere anomalie e storture del meccanismo di accumulazione. Insediatosi il 4 dicembre 1963, il governo nomina una commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont, a cui segue un disegno di legge per la ricostruzione delle zone distrutte. Il Monopolio banane, tradizionale feudo democristiano, è soppresso. Viene affrontato il nodo delicato dei patti agrari, aumentando la quota del prodotto spettante ai mezzadri. Ma sui punti più spinosi del programma i dissidi non tardano a scoppiare. La legge istitutiva delle regioni viene rapidamente affossata. Analoga sorte toccherà alla legge urbanistica. La Fiat di Vittorio Valletta, in principio favorevole al centro-sinistra, attacca aspramente le “riforme di struttura ” promosse dal Psi. In una lettera del 10 febbraio 1964 indirizzata a Colombo, il presidente del Senato Cesare Merzagora illustra l’avversione degli ambienti finanziari milanesi al centro-sinistra. Fanfani, che si ritiene il suo pioniere, non accetta di essere stato spodestato e sceglie il romitaggio toscano, dove coltiva la pittura e gli studi storici. Diversamente dallo statista aretino, il ministro della Difesa Giulio Andreotti asseconda l’orientamento del Vaticano di sostanziale sostegno al centro-sinistra, e Moro nel suo diario non manca di lodarne la leale collaborazione.

Dopo l’elezione di Antonio Segni al Quirinale e l’arrivo del leader pugliese a Palazzo Chigi, inizia a emergere la spaccatura tra morotei e dorotei. Il titolare del Tesoro Emilio Colombo caldeggia una linea rigorista alternativa a quella del governo. Suo autorevole mentore è il governatore di Bankitalia Guido Carli. È però Colombo, nella primavera del 1964, a provocare un terremoto nell’esecutivo. Il 15 maggio invia a Moro un memorandum, in cui paventa il pericolo che la politica economica del governo possa “dare un colpo mortale alle istituzioni democratiche”. Sollecita quindi l’adozione di una manovra di bilancio restrittiva con il coinvolgimento dei sindacati, oppure un blocco dei salari per decreto. Il 27 maggio il quotidiano romano “Il Messaggero” pubblica un riassunto del documento. Nenni, convinto che Colombo abbia intenzionalmente collocato “un petardo sotto i piedi del ministero di cui fa parte”, ne pretende le dimissioni. Moro dichiara di non voler “dare pubblicità alla lettera, in quanto si tratta di una lettera privata”.

Ma il suo governo ha ormai i giorni contati. Alla riunione interministeriale del 22 giugno, i socialisti contestano il previsto rimborso degli oneri sociali all’industria e il rinvio delle leggi sul suolo e sulle regioni, mentre esigono una tassazione più elevata sui redditi da capitale. Lo spettro della crisi è dietro l’angolo. Il governo viene sconfitto alla Camera nella votazione su uno stanziamento aggiuntivo per la scuola privata, per l’indisponibilità degli alleati laici della Dc a foraggiare l’educazione cattolica: tra gli astenuti figurano i socialisti Tristano Codignola, Francesco De Martino e Riccardo Lombardi, il socialdemocratico Mauro Ferri, il repubblicano La Malfa. Sono assenti per “congedo” i democristiani Fanfani, Giovanni Gioia, Piero Malvestiti e Giuseppe Vedovato. Sul primo “centro-sinistra organico” cala così il sipario dopo duecentoquindici giorni, in un crescendo di contrasti politici e rancori personali. La delusione di Nenni è cocente: “Il governo è battuto! […] Per il resto destra e Pci sono con le spalle al muro. Diano loro un governo al paese” . Sarà invece ancora una volta Moro a darlo, grazie a un capolavoro diplomatico maturato dopo settimane di convulse trattative. Alle tre del mattino di sabato 18 luglio 1964, dopo un’estenuante seduta durata quattordici ore, il quadripartito viene ricostituito.


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