Solo poco più di due anni fa il Governo Monti interveniva per liberalizzare il settore della gestione dei diritti degli artisti musicali aprendo alle imprese dopo anni difficili e complessi nei quali molte delle risorse economiche non avevano raggiunto i diretti interessati.
Purtroppo l’attitudine italiana a prevedere forme di registrazione e relativa burocrazia connessa è riuscita a colpire anche questa volta generando effetti paradossali rispetto ad un intento degno di attenzione: favorire la distribuzione dei diritti nel modo più efficace e rapido possibile.
Con la successiva istituzione di un registro presso la Presidenza del Consiglio, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, vengono introdotti alcuni criteri ai quali le società di gestione dovrebbero adattare la propria governance. L’amministrazione si cimenta così in una serie di prerequisiti peraltro difficili da verificare tranne uno, quello più deleterio.
Tra i vari adempimenti quello che infatti sorprende di più le imprese, ed in particolare quelle più efficienti nella distribuzione dei diritti, è la richiesta di predisporre una fideiussione bancaria per il 30 % del valore dei diritti trattati. La previsione suscita forte perplessità perché sembra in palese contrasto con la direttiva Bolkenstein del 2006 (la direttiva servizi) laddove essa stabiliva come fosse necessario introdurre principi di semplificazione amministrativa, in particolare mediante la limitazione dell’obbligo di autorizzazione preliminare ai casi in cui essa è indispensabile e l’introduzione del principio della tacita autorizzazione da parte delle autorità competenti allo scadere di un determinato termine.
Tale azione di modernizzazione, pur mantenendo gli obblighi di trasparenza e di aggiornamento delle informazioni relative agli operatori, ha il fine di eliminare i ritardi, i costi e gli effetti dissuasivi che derivano, ad esempio, da procedure non necessarie o eccessivamente complesse e onerose, dalla duplicazione delle procedure, dalle complicazioni burocratiche nella presentazione di documenti, dall’abuso di potere da parte delle autorità competenti, dai termini di risposta non precisati o eccessivamente lunghi, dalla validità limitata dell’autorizzazione rilasciata o da costi e sanzioni sproporzionate.
Nonostante tali previsioni EU fossero chiare l’Italia adotta alcuni criteri eccessivamente onerosi che oggi dimostrano di trasformarsi in decisi ostacoli ma che anche il Governo attuale non ritiene di dover eliminare, con clamorosi ridondanze e costi eccessivi, ma soprattutto con un effetto contrario a quello voluto.
Se infatti alla Direttiva sui servizi aggiungiamo anche le previsioni della Direttiva sulla società di gestione collettiva (quelle che gestiscono il copyright ed i diritti connessi) possiamo notare come all’articolo 13 venga specificato che gli Stati membri garantiscono che gli organismi di gestione collettiva o i loro membri che sono entità che rappresentano titolari dei diritti procedano alla distribuzione e ai pagamenti degli importi ai titolari dei diritti quanto prima e non oltre nove mesi a decorrere dalla fine dell’esercizio finanziario nel corso del quale sono stati riscossi i proventi dei diritti.
Evidente quindi che la ratio sia quella di favorire la distribuzione dei denari generati dalle utilizzazioni dei diritti agli interessati, ovvero artisti e produttori.
Invece la norma italiana che fa? Richiede alle società di gestione di bloccare il 30 % dei proventi, nel caso di una società leader nel settore come SCF, Consorzio fonografici, oltre 12 milioni in una fideiussione bancaria.
In particolare nei confronti di SCF tale previsione è due volte dannosa. Primo perché la società ripartisce tutti i diritti incassati ogni tre mesi e quindi è particolarmente efficiente, secondo perché l’aberrante interpretazione della legge prevede che anche le collecting degli artisti che ricevono da SCF i denari debbano richiedere una fideiussione con un effetto duplicatore che porta decine di milioni a rimanere immobilizzati.
Di fronte alle rimostranze la burocrazia non si scompone. E’ la legge e l’avvocatura dello Stato conferma: i titolari dei diritti possono attendere, i soldi devono andare in banca.
Tutto con buona pace di imprese concorrenti che hanno stabilito la sede a Londra e operano in Italia senza doversi registrare e senza alcuna necessità di accantonare decine di milioni senza alcun motivo logico. Poi ci si chiede perché le imprese lascino l’Italia.