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L’imprenditorialità al centro per rilanciare il Paese

Roberto Race
Roberto Race

Se c’è una cosa che rende Confindustria qualcosa di unico nel suo genere, nel panorama dell’associazionismo datoriale a livello internazionale, è la produzione di contenuti e proposte del Centro Studi guidato da Luca Paolazzi.
Inizia questo pomeriggio a Parma il convegno del Centro Studi ed è un’occasione importante per parlare del ruolo dell’imprenditore e dell’imprenditorialità per il rilancio economico del Paese.
Ecco di seguito in anticipo per i lettori di Formiche l’intervento di Paolazzi e le sintesi dello studio che sarà presentato a Parma curate da Silvia Tartamella per L’imprenditore.

A questo link il pdf: https://drive.google.com/open?id=0B94EIy0WUeXcYU9fZ0ZRSkFwQ1F0bG9FY0diVld2cUJUZU9j

L’intervento di Luca Paolazzi

Perché il Centro Studi Confindustria ha dedicato la ricerca per il suo Convegno Biennale 2016 agli imprenditori? Per ben cinque ottime ragioni.
La prima ragione è che, a partire dalla prima Rivoluzione industriale, avvenuta ormai due secoli e mezzo fa, gli imprenditori (in quanto persone distinte dalle imprese, che essi fondano e alimentano di energie e visione) sono il motore dello sviluppo economico delle nazioni. E senza la crescita economica anche i più alti valori della vita sociale (democrazia, tolleranza, solidarietà, apertura al nuovo e al diverso) deperiscono. Dunque, quegli stessi valori sono meglio difesi se più vivace è l’imprenditorialità. Un ruolo che va sottolineato con forza, non essendo ben compreso nemmeno dagli studiosi di economia.
La seconda ragione, è che gli imprenditori sono una risorsa molto preziosa, anzi essenziale, perché è quella che combina lavoro e capitale. Una risorsa che varia nello spazio e nel tempo e da cui dipende la performance economica di un paese. La terza ragione è che gli imprenditori sono un prodotto sociale, perché la loro maggiore o minore presenza e il loro stesso modo di operare discendono dai valori e dalle convenzioni del vivere sociale; dunque, agendo su questi ultimi si può modificare il tessuto imprenditoriale stesso, al fine di arricchirlo, così da migliorare la performance dell’economia.
A queste tre ragioni, sempre valide e strutturali, se ne aggiungono una quarta e una quinta, figlie del nostro tempo. Anzitutto, l’uscita dalla crisi non può che avvenire puntando sull’economia reale e in particolare sul settore manifatturiero che è la sala macchine dello sviluppo, in modo da cogliere le sfide che provengono da un mondo diventato ormai multipolare e dalle innovazioni tecnologiche che incessantemente modificano prodotti, processi, stili di vita e di consumo. Solo gli imprenditori sono in grado di trasformare quelle sfide in opportunità e, facendolo, traghettano l’intera società nel futuro che si sta realizzando. Anzi, sono essi stessi i costruttori del futuro. In questo senso, gli imprenditori sono cruciali oggi più che mai.
La quinta ragione è che il mutamento del contesto esterno e il grande ampliamento del ventaglio di competenze necessarie oggi a condurre con successo un’azienda fanno sì che sia necessario anche un cambiamento dello stile imprenditoriale. Siamo, infatti, in presenza di un mutamento di paradigma della competizione e dell’organizzazione della produzione. E, siccome il tratto essenziale e distintivo dell’essere imprenditore è quello dell’organizzatore, della guida dell’impresa, del business leader (un tratto che è dominante rispetto a quelli, pur presenti ed essenziali, dell’assunzione del rischio e della capacità di innovazione), il cambiamento di stile imprenditoriale investe proprio la conduzione dell’impresa, nella quale è sempre meno possibile distinguere tra l’efficiente gestione quotidiana e l’”invenzione del futuro”. Alla quale invenzione partecipa sempre più l’intero gruppo dirigente dell’impresa, mentre l’insieme dei dipendenti va coinvolto, in misura crescente, nella tensione allo sviluppo dell’impresa.
Tutte queste ragioni spiegano perché sia molto importante interrogarsi su chi siano e su come operino gli imprenditori oggi, nel mondo attuale. E questa domanda basilare ne tira altre: gli italiani sono un popolo di imprenditori? Che cosa spinge le persone a intraprendere? Da quali pulsioni psicologiche sono mosse? Come e dove si impara a essere imprenditori? E, prima ancora, imprenditori si nasce o si diventa? Qual è l’immagine degli imprenditori nell’opinione pubblica e come gli imprenditori vedono se stessi? Il rapporto tra imprenditori e impresa sta cambiando? Le imprese famigliari sono la colonna portante del mondo imprenditoriale? Quale cultura di impresa è bene che gli imprenditori facciano propria? Come è bene che cambi la rappresentanza di impresa?
La ricerca del CSC fornisce risposte e lo fa con un approccio multidisciplinare, coinvolgendo studiosi di vari campi (economia, sociologia, psicologia, storia, letteratura, scienza demoscopica). Questo è già un elemento che la contraddistingue. Un secondo, non meno significativo, è che è la prima volta nella sua storia ultracentenaria che Confindustria si occupa di questo tema. In effetti, l’Associazione è nata con lo scopo di migliorare il contesto in cui operano le imprese, dunque tende a occuparsi prima di tutto di ciò che accade fuori dai cancelli delle fabbriche e delle porte degli uffici, sebbene, nel tempo, abbia molto potenziato l’offerta di servizi alle imprese. Tuttavia, se è vero che sono le imprese a essere associate, è altrettanto vero che sono gli imprenditori che decidono di associarle e che infondono vita all’Associazione ricoprendo cariche e, in ogni caso, partecipando alle varie attività istituzionali. Per le ragioni dette sopra, non è un caso se la realizzazione della ricerca sugli imprenditori da parte del CSC cade proprio in questo momento storico.
In ultima analisi, occuparsi degli imprenditori significa prendersi a cuore, sebbene con approccio inusuale (ma altrettanto rilevante), la questione del rilancio della crescita dell’Italia. In piena coerenza, pertanto, con la linea politica da tempo tracciata e seguita, molto appropriatamente, da Confindustria. Agire per aumentare l’imprenditorialità del Paese equivale, infatti, ad aumentare il potenziale di crescita italiano.
In queste poche righe è impossibile riassumere tutti i risultati della ricerca. Uno balza, però, agli occhi: i dati confermano che l’Italia è una nazione di imprenditori. La quota di lavoratori indipendenti (24,9%) è nettamente più elevata che nelle altre principali economie, più che doppia di quelle della Francia (10,2%) e della Germania (11,0%). Ciò rimane vero anche quando si guarda al solo manifatturiero e, al suo interno, ai datori di lavoro: 12,1% gli indipendenti e 5,8% i datori di lavoro in Italia, contro rispettivamente il 5,1% e il 2,8% in Francia e il 3,8% e il 2,2% in Germania.
La tendenza, però, è alla riduzione, sebbene questa sia comune ad altri paesi, con l’importante eccezione del Regno Unito (dove si è osservato un aumento della quota degli indipendenti, iniziato agli inizi degli anni 80, all’epoca della rivoluzione thatcheriana). La riduzione si osserva anche nella natalità, che è scesa in Italia dal 12,5% nel 2006 all’8,1% nel 2014 (anche negli USA è diminuita, non in Spagna).
Un altro elemento molto rilevante messo in luce dalla ricerca è che, come emerge da diversi indicatori, fare l’imprenditore è diventato più difficile. Lo dice, per esempio, il netto calo della percentuale di quanti, se potessero, preferirebbero un lavoro indipendente: dal 51% nel 2009 al 44% nel 2012 in Italia, con flessioni analoghe o anche più accentuate nel resto d’Europa (fa eccezione la Germania: -2 punti percentuali, ma a un livello molto inferiore, 29%). Lo evidenzia la riduzione dal 26% al 20%, oggi rispetto a dieci anni fa, della quota di quanti suggerirebbero la professione imprenditoriale a un brillante neolaureato. E risulta dall’opinione espressa dagli stessi imprenditori italiani, per il 79% dei quali avviare un’impresa è ora più complicato di una volta, perché la crisi rende necessario per loro stessi fare un salto culturale (81%),
richiede di essere più bravi (79%), ha cambiato il modo di fare impresa (78%), ha fatto emergere le imprese più innovative (70%).

Questi risultati rafforzano il convincimento che sia fondamentale concentrare l’attenzione su quelle persone speciali che sono gli imprenditori. Mettendole al centro della strategia di rilancio del Paese, infoltendone la schiera e diffondendo tra loro quella cultura d’impresa che in molte realtà aziendali si è rivelata vincente. Con vantaggio loro e per il bene dell’Italia intera.

SINTESI PRIMA PARTE – SGUARDI SULL’IMPRENDITORE

C’è quello giuridico, quello psicologico, quello squisitamente economico e anche quello letterario. E non manca quello dell’opinione pubblica, proposto attraverso i risultati di un’indagine Ipsos condotta da Nando Pagnoncelli. Per un primo ritratto della figura dell’imprenditore, la ricerca del Centro Studi Confindustria offre sei punti di vista articolati negli altrettanti capitoli che compongono la parte iniziale.
Fabrizio Traù elabora l’excursus nella letteratura economica a partire dalla “scuola inglese” con le due posizioni ben distinte di Adam Smith, secondo il quale l’imprenditore si differenzia per l’intenzione che sta alla base del suo agire piuttosto che per la sua capacità di costruire – “egli è un prudent man che entra in un nuovo progetto o una nuova attività essendo ben organizzato e preparato, si muove senza fretta e prendendo ogni volta il tempo che serve per decidere” – e la posizione di Jeremy Bentham, che invece guarda all’imprenditore come ad un soggetto dalle caratteristiche eccezionali.
Si prosegue con John Stuart Mill, Alfred Marshall e John Maynard Jeynes, il quale mette in secondo piano l’aspetto del coordinamento e dedica attenzione all’imprenditore nel suo ruolo di investitore. Dopo un accenno alla scuola francese, Traù approfondisce il contributo delle scuole tedesca e austriaca. È con Joseph Schumpeter, ad esempio, che viene introdotto il concetto della discontinuità, della rottura di equilibri preesistenti, elemento che porterà sempre più a distinguere il semplice manager dall’imprenditore. Allo studioso austriaco, infatti, “interessa il soggetto che introduce un cambiamento all’interno del sistema economico e non semplicemente dell’impresa”. Con una precisazione importante: “la leadership economica fondata sulla capacità di innovare – afferma Traù – è una cosa del tutto diversa dall’invenzione: le invenzioni sono irrilevanti fintanto che non arriva qualcuno che le applica”.
Al termine dell’excursus storico, l’autore riassume le quattro questioni fondamentali attorno alle quali si è sviluppato il dibattito sulla figura dell’imprenditore: la coincidenza o separazione tra chi procura i capitali e chi decide cosa farne; la misurazione del rischio economico personale; l’introduzione di cambiamenti produttivi e la definizione dell’attività di coordinamento, sia che riguardi la mera routine, sia che interessi la strategia di lungo periodo. Il capitolo si conclude una definizione di imprenditore proposta dall’autore, nella quale viene esclusa la necessità tassativa di alcuni tratti caratteriali e accanto ad alcune capacità, tra cui quella di guida e di coordinamento, viene posto l’accento su quella di scegliere e di motivare le persone.
Il contributo di Franco Amatori parte invece da una suggestione poetica: l’imprenditore è come Proteo e alla stregua della divinità greca “si presenta in forme continuamente diverse”. In quanto portatori di interessi, ad esempio, sono imprenditori a pieno titolo sia i fondatori di un’impresa, sia i manager imprenditori (si guardi alla General Motors di Alfred Sloan, ad esempio), sia coloro che operano con i venture capital e con i fondi che gestiscono il risparmio, sia gli imprenditori pubblici, il quali si misurano direttamente con il potere politico.
Ma fare impresa non è soltanto avere degli interessi da tutelare: le biografie di Gianni Agnelli e di Leopoldo Pirelli vengono narrate perché dimostrano al di là di tutto la capacità di saper “conservare” l’impresa, mentre Adriano Olivetti incarna “la volontà di creare una comunità a misura d’uomo, armonizzando il luogo di lavoro con gli altri luoghi della socialità, la fabbrica con il territorio”.
Nel complesso, è il capitalismo imprenditoriale a rappresentare, secondo Amatori, la soluzione più efficace per il mondo di oggi e a questo modello ha guardato l’economista statunitense William Baumol, dal quale Amatori trae alcuni suggerimenti per favorirne lo sviluppo: premiare gli imprenditori vincenti non opprimendoli con un fisco troppo pesante e stimolare la nascita di nuove imprese senza colpevolizzare eventuali fallimenti. A questi va aggiunta la ferma condanna dei comportamenti illegali che distruggono ricchezza e il vigilare affinché permangano le migliori condizioni di concorrenza.
Oggi la figura dell’imprenditore sta vivendo una positiva rivalutazione. È l’anima della piccola e media impresa, da cui è nato in Italia il fortunato modello dei distretti; è molto spesso “la figura che sa marciare al passo con le grandi innovazioni tecnologiche, quelle che ci hanno fatto entrare nella Terza rivoluzione industriale”. Con una cautela da osservare quando si pensa a figure come quella di Steve Jobs o Bill Gates: geni dell’Ict senza dubbio, ma imprenditori che hanno potuto costruire su una base fatta di mille e trecento miliardi di dollari di spesa pubblica nel settore in circa 50 anni. “Negli Stati Uniti – conclude Amatori – ha funzionato il triangolo magico Stato-università-impresa. Genio, dunque, ma anche sistema”.
Con Marco Ventoruzzo la riflessione si concentra sugli aspetti giuridici. Nel breve excursus storico con cui prende avvio il capitolo, l’autore dedica spazio alla figura di Lorenzo Mossa, che negli anni Venti fu “tra i primi giuristi italiani a porre l’accento sul fatto che l’imprenditore organizza un insieme di beni e rapporti (tra i quali principe è quello con i lavoratori subordinati) al fine della produzione, e che è proprio questa destinazione funzionale di capitale fisico e umano a caratterizzare l’impresa”. Una definizione quasi scontata, oggi, ma non in quel periodo dove l’analisi dottrinale si soffermava sul diritto di proprietà sulle cose e sulle obbligazioni tra soggetti. Nell’ordinamento italiano la nozione di imprenditore si ritrova nell’articolo 2082 del Codice civile. I quattro aspetti che ne caratterizzano l’attività – il fatto di essere professionale, economica, organizzata e produttiva – sono elementi rintracciabili anche in altre, ma secondo Ventoruzzo quello maggiormente caratterizzante è “l’organizzazione dei fattori produttivi, di capitale e lavoro”; va notato inoltre come nel diritto italiano per definire un’impresa non sia essenziale la presenza del fine di lucro. Elemento presente, invece nell’articolo 2247 del Codice civile relativo alle società, dove il fine dei contraenti è quello di generare e ripartirsi un utile. I concetti vanno dunque tenuti distinti, concluderà l’autore al termine di un ampio ragionamento, ricordando anche come la letteratura giuridica li abbia “frequentati” in modo molto diverso: pochi gli studi recenti di diritto comparato sull’impresa, pressoché sterminata invece la letteratura sul diritto societario.
Con Stefano Castelli e più avanti nel capitolo di Antonio Calabrò e Giuseppe Lupo, entrano in gioco altre discipline, rispettivamente la psicologia e la letteratura. Castelli illustra il modello dei Big Five abitualmente adottato nelle ricerche empiriche per studiare la personalità individuale. Alle cinque componenti – Energia, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva e apertura mentale – l’autore aggiunge la propensione al rischio e analizzando “il modo in cui gli imprenditori pensano” sottolinea come peculiare l’alertness, ovvero la capacità di cogliere nell’ambiente le opportunità nascoste. Non trascurabile, ai fini della scelta professionale, è la rappresentazione sociale che, sottolinea Castelli, “non è neutra rispetto allo stimolare il desiderio di diventare imprenditore e a quale tipologia di figura ispirarsi”.
A proposito di modelli, Lupo e Calabrò raccontano con esempi italiani e stranieri come la letteratura abbia generalmente diffidato degli imprenditori e come per gli scrittori “chi si occupa di soldi” non abbia quasi mai “la dignità di assurgere al piano alto delle idee e degli ideali”. Al termine di una passeggiata virtuale che va da Charles Dickens a Honoré de Balzac, da Thomas Mann a Robert Musil, con una parentesi sui fratelli Singer, scrittori di origine ebraica, e sul Verga di “Mastro Don Gesuldo”, Lupo e Calabrò accompagnano il lettore fra le pagine futurista di Folgore e Buzzi, invitano a ritrovare lo spirito della ricostruzione in quelle di Carlo Bernari e quello del boom economico nella Califfa di Alberto Bevilacqua. La dimensione poetica dell’imprenditore la si ritrova ne “La chiave a stella” di Primo Levi, mentre è Giorgio Soavi a raccontare la figura di Olivetti ne “Il Conte”. Infine, il racconto della crisi e della globalizzazione, che ha in Edoardo Nesi, vincitore del Premio Strega con “Storie della mia gente”, uno dei suoi più fini narratori.
A concludere la prima parte della ricerca è il contributo di Nando Pagnoncelli. Impossibile riassumere la ricchezza di dati offerti dall’indagine. Una cosa è certa, il profilo dell’imprenditore ne esce un poco sbiadito e solo una minoranza degli italiani la ritiene “una figura che favorisce il cambiamento e apporta innovazioni”. Anzi, spesso “appare posta in contrapposizione a quella del semplice cittadino, piuttosto che in posizione sinergica con essa”. Molto dunque resta da fare, soprattutto sotto il profilo della comunicazione.

SINTESI SECONDA PARTE – COME SI MANIFESTA L’IMPRENDITORIALITÀ

Imprenditori va declinato al plurale: imprenditori. Questa notazione di Daniele Marini, autore del quarto capitolo, bene sintetizza il leitmotiv che percorre la seconda parte della ricerca, dedicata alle modalità in cui si manifesta l’imprenditorialità. Dai cinque capitoli che la compongono, infatti, si evince che sono numerose e come sia quasi impossibile tracciare un identikit unico ed esaustivo dei mille volti dell’imprenditore.
Mauro Sylos Labini, nell’analizzarne il ruolo in Italia, prova a rintracciare alcune caratteristiche comuni: “uomini, spesso residenti nel luogo dove sono nati e con una rilevante esperienza lavorativa” sono i primi tratti, a cui va aggiunta, in alcuni casi, la mancanza di alternative. Sono i cosiddetti push-selfed employed, ovvero i lavoratori indipendenti “spinti” dalle avversità economiche, ai quali però non mancano mai altre motivazioni, inclusa la volontà di dare vita a un’idea di business. Gli imprenditori in Italia sono tanti e, fa notare Sylos Labini, “nemmeno la crisi del 2008 o il rallentamento della crescita dell’economia italiana negli ultimi decenni hanno modificato significativamente l’alta intensità imprenditoriale del Paese”.
Nella scelta il livello di istruzione incide, ma non come forse ci si aspetterebbe: la probabilità di lavorare in proprio è più frequente ai poli opposti, ovvero tra chi ha conseguito la licenza elementare e chi è laureato, salvo le specifiche di alcuni settori. Inoltre, il commercio e il settore alberghiero e della ristorazione sembrano presentare meno barriere all’ingresso rispetto al manifatturiero, dove contano di più le competenze e i capitali iniziali. In generale, di nuove imprese ne nascono e i tassi di sopravvivenza sono in linea con quelli degli altri paesi europei, ma diversa è la crescita, più lenta senza dubbio.
Con Samuele Murtinu e Marco Vivarelli entrano in campo nell’analisi altri fattori all’origine dell’imprenditorialità, ovvero di quel “processo di entrata attraverso cui nuove imprese iniziano a partecipare al processo concorrenziale”. Il background familiare, per esempio, oppure i vincoli finanziari o ancora fattori personali non-economici, quali il desiderio di autonomia, l’aspirazione a sfruttare la precedente esperienza lavorativa, sicché esistono anche i cosiddetti “errori di entrata” ovvero casi in cui gli imprenditori in questione hanno sottovalutato i rischi legati a nicchie di mercato altamente competitive oppure con scarsa profittabilità.
Accanto gli imprenditori realmente innovativi, dunque, convivono “imitatori, scommettitori ultra-ottimisti, persone che scappano dalla disoccupazione”, per questo motivi gli autori invitano alla cautela e a parlare in termini più neutrali di “fondatori di nuove imprese”. La distinzione non è priva di conseguenze: chi detta la politica industriale di un paese, i cosiddetti policy maker, dovrebbe prestare molta attenzione a questo aspetto, rinunciando a sussidiare genericamente la nascita di nuove imprese per non sprecare risorse pubbliche. Sussidi selettivi, dunque, al posto dei sussidi “a pioggia”, perché da questi ultimi – è il ragionamento degli autori – verrebbero beneficiate imprese che senza l’aiuto non sarebbero mai state fondate e che non sarebbero sopravvissute alla prova del mercato.
Alessandro Arrighetti e Fabio Landini proseguono la riflessione sulla propensione all’imprenditorialità a partire dalla spinta apportata da esperienze lavorative svolte durante gli anni di studio. I due economisti commentano, inoltre, i risultati di una recente indagine condotta dall’Università di Parma e dall’Università Politecnica delle Marche, nella quale si esamina lo spirito “imprenditoriale” degli studenti universitari. Il desiderio di autorealizzazione, precedenti esperienze di lavoro e un network familiare e sociale vivace favoriscono indubbiamente il terreno, mentre al contrario la prospettiva di un reddito elevato non è tra le motivazioni più stringenti.
Sulla scelta pesa anche la percezione degli ostacoli e qui, si potrebbe dire, vengono alla luce fattori in un certo senso già noti, quali la mancanza di capitali iniziali, il carico degli adempimenti fiscali e la congiuntura economica sfavorevole. Limitata anche l’assistenza ottenuta dalle istituzioni mentre l’università, che viene riconosciuta come un incubatore ideale per le competenze imprenditoriali, non esprime in pieno tutto il proprio potenziale.
Nel complesso l’Italia non incoraggia a diventare imprenditori, lo dimostra lo scarto consistente tra intenzioni dichiarate e realtà dei fatti o il forte pessimismo tra i giovani rispetto alle probabilità di riuscire. Accomunati da ambizioni e da obiettivi, gli imprenditori “scoraggiati” e gli imprenditori “probabili” si differenziano a livello psicologico: valutano diversamente le capacità possedute, le difficoltà e il contesto istituzionale.
Il contributo di Daniele Marini ricorre all’immagine del caleidoscopio per sintetizzare i risultati della ricerca promossa dal Csc e realizzata dall’istituto di ricerca Community Media Research alla fine dello scorso anno. Quella degli imprenditori si presenta, infatti, come una professione imprevedibile e variabile allo stesso modo dei riflessi prodotti dalle tesserine colorate dello strumento, all’interno della quale tuttavia la crisi del 2008 ha rappresentato uno spartiacque.
La stragrande maggioranza sembra aver assorbito il colpo ed esprime “un sentiment di generale apertura sulle conseguenze della crisi”. Non desta timore la domanda di miglioramenti tecnologici, ma è il salto culturale necessario a impensierire di più perché il modus operandi di un imprenditore non cambia dall’oggi al domani.
In generale, fare impresa è percepito come un’attività oggi più complicata rispetto al passato sia per l’accresciuta competizione, sia per la maggiore preparazione professionale richiesta. Non va trascurato il peso della concorrenza sleale, mentre meno problematici appaiono il clima sociale sfavorevole a chi fa impresa e la modesta disponibilità a rischiare da parte dei giovani. Con la crisi sembra essere cambiato anche il “pacchetto” di abilità richieste per guidare un’impresa: innovazione, lavoro di squadra e capacità di valorizzare i lavoratori hanno scalzato dal primo posto della classifica l’attitudine al rischio. Nonostante le difficoltà, comunque, gli imprenditori restano profondamente legati al loro mestiere e la stragrande maggioranza si definisce soddisfatta.
Massimo Livi Bacci conclude la seconda parte della ricerca raccontando l’imprenditoria immigrata, un fenomeno di estrema attualità se si pensa che in appena quindici anni gli stranieri regolarmente residenti in Italia sono passati dal milione di inizio millennio ai cinque milioni del 2015, costituendo oggi il 10% della popolazione totale.
Per quanto riguarda l’imprenditoria, le aziende straniere sono sicuramente più piccole e meno profittevoli ma, fa notare lo studioso, “sono numerose e in crescita, cominciano ad assumere personale anche italiano e (…) stanno uscendo dal ghetto (e dallo stereotipo) della badante e dell’uomo che si occupa solo delle pulizie o dei piccoli cantieri edili”. Il bacino di indagine si ricava dal registro delle imprese delle Camere di Commercio e dall’Archivio Istat Asia (Archivio statistico delle imprese attive) con la precisazione che è il paese di nascita a determinare la classificazione come imprese straniera; ne consegue che le “seconde generazioni” nate in Italia non vengono incluse. Le comunità imprenditoriali più attive sono, nell’ordine, quella cinese, rumena, albanese, svizzera e marocchina e quello cinese, con la forte presenza nei distretti manifatturieri di Carpi e di Prato, è uno dei casi più studiati.
A influenzare la crescita dell’imprenditoria immigrata concorrono vari fattori, a cominciare da un naturale desiderio di riscatto sociale, più accessibile per gli stranieri tramite un’attività autonoma piuttosto che come lavoratore dipendente e dalla forte domanda di lavoro autonomo esistente nel settore dei servizi, si pensi alla ristorazione, ai piccoli trasporti, alle pulizie e al commercio di strada.

SINTESI TERZA PARTE – GLI IMPRENDITORI E LE IMPRESE

Azionisti, consiglio di amministrazione, management e stakeholder. Sono questi i principali attori della corporate governance richiamati nel capitolo di Donato Iacobucci e Alessandro Zattoni, da cui prende avvio la terza parte della ricerca. Sotto la lente le aziende viste al loro interno, partendo proprio dall’analisi di quei meccanismi di corporate governance che, ricordano gli autori, “non hanno solo l’obiettivo di evitare comportamenti opportunistici da parte di chi controlla l’impresa, ma possono anche favorire la creazione di valore per gli azionisti e gli stakeholder dell’impresa”. Il capitolo esamina, nell’ordine, l’allocazione dei diritti proprietari, la composizione del consiglio di amministrazione e il funzionamento dei piani di incentivazione collegati al rendimento aziendale. L’insieme di questi strumenti viene poi riportato al caso più diffuso nel sistema industriale italiano, ovvero quello della piccola e media impresa. Con una puntualizzazione: il modello classico, nel quale proprietà, controllo e direzione si sovrappongono, non è l’unico esistente ed i gruppi di impresa e le startup innovative forniscono un ottimo esempio di complessità degli assetti proprietari e di controllo. Inoltre, le seconde si distinguono in particolare “fin dalle fasi di avvio per un elevato livello di trasparenza e comunicazione riguardo alle loro strategie”, notazione questa che consente agli autori di approfondire l’importanza della trasparenza stessa. Oggi infatti è una delle “condizioni essenziali per favorire la collaborazione degli stakeholder e la capacità di attrarre risorse umane e finanziarie”, in quanto, concludono Iacobucci e Zattoni “le nuove condizioni di tecnologia e di mercato impongono anche alle pmi di abbandonare il tradizionale meccanismo di finanziamento esterno basato sulla banca per aprirsi a nuove possibilità di reperimento di capitali sul mercato, anche nella forma del capitale di rischio”.
Pregi e difetti dell’imprenditoria familiare sono al centro della riflessione di Marco Cucculelli e di Livio Romano. Dopo una preliminare definizione, le peculiarità delle imprese familiari vengono analizzate in rapporto alle performance che queste determinano con il fine di comprendere gli eventuali nessi. Nel fare chiarezza all’interno della materia, va detto inoltre che “family business” non sempre fa rima con piccola impresa e che “il controllo da parte delle famiglie coesiste in molti casi con realtà societarie di grandi dimensioni, spesso in concorrenza sui mercati globali”. Diverse, piuttosto, sono le forme in cui tale controllo viene esercitato perché alcune famiglie scelgono di farsi affiancare da manager professionisti, altre delegano in toto agli amministratori mantenendo soltanto “la supervisione sul loro operato”. In merito alle implicazioni di una proprietà concentrata nella mani della famiglia imprenditoriale, emergono senza dubbio alcuni vantaggi: il desiderio di preservare la reputazione o di mantenere il controllo per le generazioni successive induce infatti a una maggiore dedizione, una maggiore responsabilità e al contempo tiene basso il livello di contrasto fra proprietà e lavoratori. Fra i momenti più delicati vi è sicuramente la scelta del top management o il passaggio generazionale; quest’ultimo, fanno notare gli autori, “impone di interrogarsi su quali siano gli ‘asset imprenditoriali’ ancora detenuti e quale il loro valore nel caso si decidesse di trasmetterli alle generazioni successive” e richiede una gestione “che limiti al massimo le divergenze tra gli eredi e il conseguente rischio di lotte di successione”.
Giorgio Brunetti dedica il suo capitolo alle concezioni imprenditoriali dell’impresa. Due i modelli a confronto: nel primo l’imprenditore si identifica con l’azienda e ne è intimamente legato; nel secondo considera il “fare impresa” una professione. Analizzando le rispettive caratteristiche, la concezione identitaria si distingue tendenzialmente per la resistenza alla crescita dimensionale, la riluttanza ad aprire il capitale a terzi, la difficoltà ad assegnare deleghe piene ai collaboratori o ancora il considerare l’azienda come “la naturale fonte di lavoro per i familiari”. Aspetti, questi, molto presenti nelle piccole e medie imprese, ma che negli ultimi anni sono stati messi in discussione dalla crisi e dalla competizione globale. La progressiva ibridazione, secondo l’autore, è avvenuta attraverso il ricordo al management, ma anche grazie alla “riscoperta degli stakeholder”, che ha portato ad una nuova impostazione nel rapporto con i fornitori e con i dipendenti. Il risultato è l’impresa come “comunità che si rapporta con le altre contemperando gli interessi di tutti”.
L’impresa come professione è una concezione più diffusa fuori dall’Italia. “Imprenditori tecnologici” e “imprenditori seriali” sono le due categorie analizzate da Brunetti, accomunate dal fatto di guardare all’impresa “non come un proprio bene da mantenere nel tempo, ma come una realtà dove svolgere una professione stimolante e con la quale procurarsi, se le cose andranno bene, una certa ricchezza”.
Con Innocenzo Cipolletta il campo di indagine si sposta sul contributo che la finanza apporta alla creazione e allo sviluppo delle imprese, nonostante oggi sia vista come “il male dei mali dopo la crisi globale iniziata nel 2008”. Il sintetico excursus storico con il quale l’autore apre il capitolo rintraccia negli anni Settanta la nascita di un mercato delle imprese, all’interno del quale le aziende “sono valutate sulla base delle loro prospettive, dei fattori di innovazione, della situazione patrimoniale delle professionalità esistenti”. Da qui, inizialmente nel solo mondo anglosassone “si delinea la figura del fondo di private equity”, mentre l’Italia arriverà a questa tappa successivamente, a partire dagli anni Ottanta con primi operatori come Ettore Quadrani e Giorgio Tellini. Oggi il numero degli operatori di private equity e di venture capital ha superato quota 100 e l’Aifi, nata nel 1986 su iniziativa degli economisti Marco Vitale e Anna Gervasoni, è l’associazione che li raggruppa. Accanto ad operatori privati, inoltre, esistono fondi istituzionali di natura pubblica, si pensi per esempio al Fondo italiano di investimento oppure al Fondo strategico italiano.
Cipolletta precisa come il confronto tra i risultati ottenuti da imprese tradizionali e imprese partecipate da private equity sia naturalmente viziato dal fatto che queste ultime costituiscono di per sé un campione di aziende selezionate. E tuttavia questo parallelo consente di dimostrare che proprio grazie al contributo della finanza il potenziale di queste imprese ha potuto esprimersi al meglio.
La finanza ha cambiato anche la tipologia degli imprenditori nati negli ultimi decenni consentendo per esempio “a “molti dirigenti di azienda (…) di fare un salto verso l’imprenditorialità, trasformandosi da dipendenti in azionisti” oppure ha permesso a seconde e terze generazioni di mettersi alla prova senza aspettare passaggi generazionali a volte tardivi. Nel caso più specifico del venture capital, che vede in campo un finanziatore pronto a investire capitale su un’idea da sviluppare, si è osservato come gran parte degli esempi degli ultimi anni provenga dal settore Ict. Uber, Expedia, Airbnb sono i casi forse più clamorosi, ma in generale numerose sono le startup che grazie all’attenzione dei venture capitalist, dei cosiddetti business angels, hanno potuto mettersi alla prova. La conseguenza più significativa – e certamente positiva – è che “si è ricostruito un filo di collegamento tra le università (…) e il mondo dell’impresa, che sta facendo nascere e crescere nuovi imprenditori e soprattutto che sta diffondendo una cultura d’impresa”.

SINTESI QUARTA PARTE: COME RAFFORZARE L’IMPRENDITORALITÀ NELLA SOCIETÀ

La domanda di imprenditorialità cresce perché gli equilibri ereditati dal passato scricchiolano sotto la forza dei cambiamenti della società globale. Parte da questa premessa il capitolo firmato da Enzo Rullani che apre l’ultima parte della ricerca. Archiviati il fordismo della grande impresa del Novecento e il più recente capitalismo flessibile dei distretti industriali, oggi serve un diverso spirito imprenditoriale, che non per forza fa rima con high tech, ma necessariamente deve permeare la grande come la piccola e media impresa. E se è vero che il contesto italiano non aiuta, perché in passato ha sempre separato “l’apprendimento creativo e sperimentale (…) dai processi di istruzione”, è innegabile che le sfide dei nostri tempi chiedono una risposta o comunque di mettersi in gioco molto e più di prima.
In merito Rullani introduce il modello di “imprenditorialità distribuita” affiancandovi una riflessione sul concetto di rischio crescente e insiste sull’importanza di interpretare gli esempi di nuova imprenditorialità “non come casi unici”, ma come “modelli replicabili”. Le high growth firms rappresentano secondo l’autore una peculiarità dei nostri tempi: “imprese dotate di un alto potenziale di profitto e di traiettorie esponenziali di crescita” – si pensi a Uber, Alibaba o Airbnb – che usano al meglio i vantaggi offerti dalla globalizzazione, dall’automazione o ancora dal networking.
In questo scenario anche il mestiere dell’imprenditore sarà costretto a cambiare perché “dovendo guidare altre persone e interessi in un viaggio comune verso il nuovo”, dovrà imprimere senso alla “meta prescelta”. Le qualità necessarie a questo percorso vengono coltivate a sufficienza? Non esattamente. Secondo Rullani, infatti, a livello generale solo da poco “la logica imprenditoriale comincia ad essere adottata da categorie professionali e sociali che un tempo ne erano rimaste distanti”, mentre l’istruzione – e più in generale i processi di formazione – fino ad oggi hanno premiato soprattutto una conoscenza codificata a scapito di una conoscenza generativa, quest’ultima basata su creatività e spirito critico. Da qui alcuni suggerimenti pratici da parte dell’autore per consentire già durante gli anni scolastici di familiarizzare con quelle che saranno le complessità del lavoro.
Con Giangiacomo Nardozzi la ricerca affronta il tema della cultura d’impresa, intesa come lo strumento principe per traghettare il paese fuori dalla “stagnazione secolare”. Non saranno infatti le manovre monetarie a garantire l’uscita dalla crisi o la ripresa della produttività, ma un insieme di fattori a cominciare da una finanza che accetta di tornare al servizio dell’economia e da un efficace contrasto alla dispersione di imprenditorialità, risorsa sempre più scarsa e più preziosa. La cultura d’impresa opera per l’appunto in questa direzione e – avverte l’autore – va sempre letta nella sua doppia accezione, ovvero sia riferita al singolo imprenditore e/o all’impresa, sia riferita al contesto politico-economico in cui le aziende operano.
Qual è stata la sua evoluzione in Italia? Nardozzi sceglie di analizzarla recuperando alcune tappe del percorso di Confindustria come il Manifesto per la cultura d’impresa del 2010 – riportato in appendice – oppure citando il lavoro svolto da Guido Carli alla presidenza della Confederazione “per affermare la cultura della concorrenza, fondamento di quella d’impresa”. Un’azione che all’epoca non fu priva di difficoltà, precisa Nardozzi, il quale ritrova analoga attenzione al tema soltanto nel 2004 con il “Progetto concorrenza” avviato dal presidente Luca Cordero di Montezemolo. Gli studi realizzati e il convegno del 2006 a Vicenza testimoniano la sensibilità all’argomento ma da allora è passato un decennio e, afferma l’autore, “buona parte degli ostacoli alla concorrenza, delle problematiche relative all’azione dell’Autorità ad essa preposta (Agcm) e delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità (Aeeg e Agcom) sono tuttora presenti e varie proposte allora avanzate per porvi rimedio ancora valide”.
L’area dove si è esercitata una maggiore cultura del cambiamento è forse quella della piccola e media impresa. Nardozzi riprende il ragionamento partito dal convegno di Palermo del 2009 “Oltre la crisi, Pmi classe dirigente” e approfondisce le conquiste intellettuali più significative: dal salto culturale/dimensionale auspicato da Giuseppe Morandini, alla constatazione che non è sufficiente essere buoni produttori senza divenire imprenditori illustrata da Vincenzo Boccia, fino alla responsabilità sociale promossa da Alberto Baban che, come specifica Nardozzi, “non è solo quel di più che si concretizza in tanti buoni atti di liberalità (…) ma rientra nella stessa funzione degli imprenditori di promuovere il cambiamento”. Ed è con questa crescita di consapevolezza che va spiegata secondo l’autore “la grande fiducia riposta dagli italiani nei piccoli e medi imprenditori come i soggetti che più possono contribuire al progresso economico e sociale”.
L’ultimo capitolo della ricerca è affidato a Nadio Delai e approfondisce il tema della rappresentanza. Dando per acquisiti alcuni aspetti di base – il fatto che le associazioni siano costituite da imprese e non da individui, la “diversità dei processi generativi degli imprenditori”, nonché le differenze createsi fra le imprese stesse a causa della selezione operata dalla crisi – secondo Delai resta immutato il fatto che “un’associazione di rappresentanza non può che ‘assomigliare’ alla propria base per potere essere riconosciuta e legittimata, ma deve contemporaneamente giocare ‘al rialzo’ rispetto ad essa per accompagnarla verso il futuro”. In particolare, lo studioso sottolinea i passaggi chiave con i quali è necessario misurarsi nell’attuale contesto: il ritorno all’economia reale con lo stop a una ricchezza creata esclusivamente dalla finanza; il rientro del sociale nell’economia e il conseguente recupero di fiducia e di un “noi” al posto dell’ “io” e, infine, il superamento delle attese sociali decrescenti che tanto hanno incupito il paese, rinchiudendolo in un atteggiamento di difesa.
Il ruolo associativo non è escluso da questa sfida, anzi è chiamato ad affrontare il “ciclo deflattivo della rappresentanza” trovando nuove strade e allo stesso tempo sapendo investire il patrimonio associativo fino ad oggi accumulato. Prendendo in prestito le parole dello scrittore Massimo Recalcati, Delai afferma che “i sistemi della rappresentanza, affrontando la mutazione necessaria che loro compete, debbono ridiventare adulti un’altra volta”. Come applicare tutto ciò? L’autore non si tira indietro e riepiloga al lettore un serie di punti che a prima vista potrebbero apparire scontati, ma in realtà richiamano il senso profondo del ruolo associativo racchiuso nella triade “identità, rappresentanza, servizi”.
“Diventare dirigenti associativi – spiega più avanti Delai – richiede anche la consapevolezza di assumere un ruolo e delle funzioni altri rispetto a quelli esercitati normalmente nell’ambito dell’azienda” per aggiungere che un’associazione di imprese da un lato “promuove gli interessi dei propri iscritti (…), ma sa anche promuovere gli interessi più vasti del paese”.
Quali dunque le funzioni da svolgere? Interpretazione, proposta e promozione del consenso e, per essere ancora più esplicito, Delai propone un decalogo di “malintesi, sbandamenti, tentazioni” dai quali chiunque si candidi a ricoprire un ruolo di rappresentanza dovrebbe stare lontano. Se ne citeranno solo alcuni, come ad esempio “il farsi tentare dalla discesa in politica” o “il concepire l’associazione come possesso”. Non è un mestiere facile verrebbe da dire e forse per questo l’autore sceglie di concludere il capitolo con un appello a praticare quattro virtù – coraggio, innovazione, tenacia e generosità – per esercitare al meglio il ruolo di classe dirigente e non restare impigliati “nella gestione pura e semplice del quotidiano, nella quale è relativamente facile adagiarsi, trasformandosi in classe ‘gerente’”.


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