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Obama, Trump e Hiroshima

Settant’anni dopo, sette leader in piedi davanti alla tomba simbolica di centocinquantamila morti. Così si è concluso il prevertice dei ministri degli Esteri dei Sette “paesi più industrializzati” che, fino a pochi anni fa, potevano ancora essere definiti i Sette Grandi, prima che la globalizzazione e la robotizzazione cambiassero gli atlanti.

Non c’era ancora la Cina, non c’era più la Russia, c’erano ancora il Canada e l’Italia. È stata anche la prima volta, però, che il mondo si è scusato per Hiroshima e Nagasaki con Hiroshima e Nagasaki, ma soprattutto con se stesso. Ha parlato per tutti il Segretario di Stato americano John Kerry, il “numero due” della Superpotenza numero uno, l’uomo che è riuscito a concludere tutte le paci possibili. Egli ha risposto all’interrogativo del giorno, riguardante Barack Obama e la sua tentazione di venire in Giappone in persona a dire che gli dispiace che settant’anni fa sia accaduto questo e che abbia la firma dell’America. Obama non porterà, ha detto Kerry, delle scuse ufficiali, ma forse verrà e la sua presenza sarà significativa. Tutti dovrebbero visitare Hiroshima – ha detto Kerry – e “tutti” significa “tutti”. Compreso Obama. “È stato invitato a venire e vuole venire, un giorno o l’altro. Quello che non so è se potrà venire da presidente”. Cioè prima o dopo la scadenza del suo mandato.

L’occasione migliore è il vertice del G7, in calendario il mese prossimo a Ise-Shima, a quattrocento chilometri di distanza. Una occasione d’oro per un presidente che, appena eletto, fu insignito del premio Nobel per la Pace. Un riconoscimento senza precedenti per chi si era presentato con un programma senza precedenti: “Costruire un mondo senza armi nucleari”. In tanti la considerano una utopia, una parte importante di tutti gli establishment di Washington, dal militare al finanziario lo respinge come un rischio per la sicurezza nazionale. La Casa Bianca è ben conscia di essere sotto pressione, soprattutto in un anno elettorale particolarmente aspro, con un ruolo senza precedenti per le correnti e per i candidati più militanti.

Donald Trump è finora il più noto ma non è il solo. I repubblicani hanno sistematicamente dipinto la politica estera di Obama come oscillante, debole e “disfattista”, a cominciare dai rapporti con la Russia ma anche in Siria (avrebbero voluto un intervento militare contro il regime di Damasco, che avrebbe indirettamente avvantaggiato anche l’Isis. Hanno fatto oggetto di mordaci ironie la “mania delle scuse” attribuita a Obama, compreso il suo inchino nell’incontro con l’imperatore del Giappone (ma se lo era dovuto permettere anche Bush), ma soprattutto l’accordo nucleare con l’Iran e la riconciliazione con Cuba presieduta ancora da un Castro.

I rapporti con Tokio, invece, sono rimasti saldi, anche perché Obama ha sempre dato la precedenza, fra i teatri di crisi, all’Asia orientale minacciata dall’espansionismo cinese. Le tensioni con Tokio sono sempre contenute e riguardano il passato, una guerra conclusa settant’anni fa. Il governatore di Hiroshima ha ricordato di recente che, fra Obama e i presidenti di altri Paesi che dispongono ora dell’atomica, sono stati gli Stati Uniti gli unici che quella bomba l’hanno sganciata (ma questo non significa – ha subito aggiunto – che Obama si debba scusare).

Hiroshima e Nagasaki pilastri della Storia? Come Grande Storia non fanno parte del capitolo del Giappone ma di quello dell’America. Gli Stati Uniti, già allora crogiuolo del pianeta, vi aprirono una nuova strada; il Giappone, aggressiva potenza provinciale del ventesimo secolo, ne fu toccato incidentalmente.

Americane furono e sono la gloria, il trionfo, la responsabilità. Da Hiroshima e Nagasaki nacquero la pax americana, che coincise con la Guerra Fredda. Tokio ne fu vittima e fruitore, poi spettatore. Al di fuori dei dì di festa, di Hiroshima si parla più a Washington che a Hiroshima. Là si è fatta la storia, ragione e coscienza.

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)


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