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Monti politico? E’ riuscito a scontentare tutti

Nell’anno verdiano non poteva non venirmi alla mente, mentre ascoltavo la diretta radiofonica del discorso di addio di Mario Monti dopo il culminar della sua esperienza di governo, quel fantastico brano del Don Carlos (un’opera pur terminata nel 1866) in cui s’intravedono i bagliori di uno spagnolo auto da fè dell’Inquisizione. L’auto da fè, ce lo insegna una ricchissima tradizione letteraria, da Melville a Canetti, è il tormentato confessare la propria fede; sotto tortura, tuttavia, ed è nel contempo, un manifestarsi dell’improbabilità della stessa confessione per lo stato di costrizione in cui si è costretti. Mario Monti si è auto-sottoposto (incautamente) a una sorta di incredibile auto da fè tecnicamente disastroso, come documenta la lettura dei quotidiani che ne costruirono l’immagine mediatica di grande stratega e statista.

Rivolgendosi così a viso aperto all’agone del potere politico e financo economico per i legami che esistono tra i due poteri, esibendosi così compiutamente sul campo, tutta un’inconfessabile  mediocrità è apparsa: magica agnizione. Una mediocrità che è una sorta di ontologia dello spirito borghese come mai sino a ora si era vista in Italia. Ha scontentato tutti, tuttavia, perché quell’agnizione era stata abilmente dissimulata e rinviata; ma l’ora della verità giunge sempre. Qui o nell’al di là.

Qui Egli ha sconfessato i suoi campioni di Centro umiliandoli non dando loro fiducia nella formazione di liste che dovevano far votare ma che non dovevano contribuire a formare se non sotto stretta sua osservanza. Egli ha sottoposto al rischio della parzialità la più alta autorità dello Stato trasfigurandola in una sorta di possibile bottino o baratto sub specie condizioni imposte a tutti, avversari o non avversari. Egli ha scatenato il terribile e sempre vivo Berlusconi che colpirà ben più di quanto non si pensi con la sua coda pungente. Egli ha offeso la sinistra giungendo a demonizzarne dei componenti attivi e sagaci (il marchiare il giovane coraggioso Stefano Fassina come indesiderabile). Tutte volizioni che, se si attuano, si devono poter sostenere con un potere proprio. Potere che Mario Monti non possiede.

Dell’Europa è stato un funzionario, mai un demiurgo. E così facendo ha disvelato la sua stoffa: l’Agenda Monti è un debolissimo manifesto rimasticato delle banalità di quell’economia sociale di mercato che non ha mai trovato un pensiero teorico minimamente sostenibile. Ha deluso gli euro-filotedeschi che ne hanno ora avvertito tutta la debolezza teorica e l’incapacità tragica di dominare e possedere in prima persona il potere su scala nazionale.

Ma come ci insegnano la storia e la teoria kissingheriana delle relazioni internazionali è la stabilità del potere nazionale che assicura la capacità di trasferire la potenza nell’arena internazionale e far sentire in tal modo la voce degli interessi nazionali. Così la Merkel e i suoi deflazionistici compagni son rassicurati nel loro distruttore dominio. Gli inquieti son naturalmente gli Usa, sconcertati da questa incapacità di federare e di conquistare consenso e potere. Insomma, l’inconsistenza preoccupa.

Per fortuna Mario Draghi fa buona guardia, cuneo keynesiano riluttante ma efficace conficcato nelle costole della costruzione deflazionista che ci sta portando alla disgregazione. L’ontologia borghese montiana è un fattore distruttivo che quell’auto da fè sopra richiamato disvela: è il calcolar su tutto e per tutto in guisa monetaria, è questo non sfidare il tempo ma farsene dominare per calcolarlo utilitaristicamente. Si tratta di un non celato affronto metafisico alla sostanza intima dello spirito pubblico dell’alta politica per via d’una discesa che s’intravvede redditizia nella contabilità della materia. Giorgio Napolitano, politico di lungo corso formatosi quando lo spirito pubblico imperava benevolmente per la comunità tutta, non potrà che a lungo soffrirne con il popolo italiano.



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