Una premessa “politico-ideologica”: sulla guerra globale al terrorismo si sono intrecciate varie ipotesi interpretative, ma nessuna finora è sembrata soddisfare il requisito fondamentale della chiarezza e coerenza rispetto alle basi geopolitiche. Il cospirazionismo vede nel terrorismo fondamentalista islamico l’espressione di interessi di alcune potenze, ed è dunque eccessivamente schiacciato sulla mappa geopolitica; il pacifismo (un pò appannato ultimamente) la conseguenza di squilibri economici; la geopolitica culturale ha cercato di fare una sintesi. Ma alla fine è al dato storico e storico-militare che bisogna guardare.
Il ruolo della Nato come alleanza transcontinentale, a carattere tendenzialmente globale, è emerso con forza dopo la fine della guerra fredda, ed è stato testato durante gli anni della presidenza Bush (2000-2008). E’ dunque su questo lasso temporale che si concentra l’analisi di Davide Borsani, studioso della Facoltà di scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano, uno dei centri di elaborazione di linee strategiche euro-atlantiche più importanti del nostro Paese. “La Nato e la guerra al terrorismo durante la presidenza Bush”, appena uscito per Aracne editrice, rappresenta una novità importante nel panorama italiano, perché pone la guerra al terrorismo nel contesto storico preciso di una “svolta” durante il secondo mandato Bush, svolta che non può essere interpretata solo come “ravvedimento” americano, ma anche come convergenza di interessi globali tra le capitali europee (in particolare Parigi e Berlino) e Washington. E’ dunque il periodo 2004-2006 che giustamente Borsani pone in rilievo come sfondo geopolitico ad una guerra che ebbe due teatri principali (Iraq e Afghanistan), ma che in realtà coinvolgeva, direttamente o indirettamente, le “terze potenze” in ascesa libera, impetuosa e potenzialmente pericolosa per l’ordine euroamericano.
Borsani interpreta la Nato come arena in cui si esprime questo ordine. E’ certo che la “svolta del secondo Bush” ha messo in evidenza come esso non sia soltanto un veicolo della potenza Usa, o della relazione speciale Usa-Gran Bretagna. Senza la rielaborazione strategica bushiana (ingiustamente schiacciata sull’unilateralismo del primo mandato) non sarebbe stato possibile il ritorno dela Francia in seno alla Nato, ufficializzato nel 2007 e facilitato negli anni immediatamente precedenti dalla decisione americana di non sfruttare la crisi politico-militare della sfera di influenza francese in Africa. Dunque Parigi non fu affatto “punita”, secondo le intenzioni molto pubblicizzate in Europa di alcuni neoconservatori Usa, ma cooptata in un gioco diplomatico che aveva come posta in palio l’offerta di una resistenza all’ascesa delle terze potenze asiatiche.
Il duplice intervento in Afghanistan (ottobre 2001) e Iraq (marzo 2003) va dunque letto, sempre più, non come episodio di una crociata antiterroristica americana, ma come “guerra politica” classica, clausewitziana, di regolazione della bilancia energetico-politica nell’area più delicata per lo sviluppo delle terze potenze asiatiche.
Non è un caso che Borsani, seppure in nota, ponga in relazione questa evoluzione strategica del significato della guerra al terrorismo con l’emergere di crisi strutturali nel vicino estero russo (la rivoluzione arancione in Ucraina) e l’emergere di una preoccupazione europea per la sistemazione dell’Iran. Su quest’ultimo tema, che si presenta come attualissimo terreno di verifica dei rapporti di forza internazionali, l’idea che emerge dal libro di Borsani è quella di una posizione comune tra Europa e Stati Uniti anche nella scelta dei partner regionali (Israele, Turchia e Arabia Saudita). Si tratta di un’ipotesi che, se confermata nello sviluppo della crisi iraniana, darebbe alla guerra al terrorismo e ai regimi che lo sostengono il carattere di svolta cruciale a favore di un “ordine euroamericano” che dieci anni fa sembrava in crisi irreversibile. Sarà questo il prossimo capitolo che andrà scritto, in qualsiasi ricostruzione del Medio Oriente all’inizio del XXI secolo.