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Cosa penso della riforma della Costituzione

Maria Elena Boschi

Prima di tutto per non offendere l’intelligenza degli italiani giovani e grandi e scivolare nella rassegnazione nell’oblio dell’antipolitica, è necessario dare un buon esempio del modo in cui bisogna discutere il merito delle riforme sottoposte a referendum, contrastando la tendenza a farne un plebiscito sul governo.

Democrazia – demos-crazia – significa idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno non rassegnazione . Una riforma costituzionale va promossa da un Parlamento legittimo.

Questo è un Parlamento illegittimo in quanto eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale e antidemocratica: deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori. La Corte costituzionale si è pronunciata contro testualmente “ Si è rotto il rapporto di rappresentanza”. Quella sentenza avrebbe dovuto tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, portare a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. Esiste una questione di legittimità che è una diffida su questo governo ,che ha votato una riforma costituzionale forte di un incostituzionale premio di maggioranza.

Questo è un governo illegittimo e non può essere governo costituente: sono i governi dei dittatori quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, arma violenta del proprio potere. Sono il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, che sono “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono rispettare la Costituzione, non violarla forti dei numeri acquisiti nella compravendita di parlamentari.

L’arroganza e la prepotenza hanno dominato e continuano a dominare il percorso parlamentare ostaggio: disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, transumazioni di mercenari parlamentari alla riffa di posti e favori, eliminazioni delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti, fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma con una spregiudicatezza vergognosa, con la morte della politica soffocata dalle minacce.

Noi entriamo nel merito di questo testo non solo nel metodo come vorrebbero coloro che trattano il popolo come asservito. Le riforme costituzionali sono anche tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere.

Nel testo in oggetto di analisi per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è evidente l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto””, potrà derivare dall’iniziativa del Presidente della Repubblica che – come è già avvenuto – agirà per ottenere la fiducia della Camera.

In merito alla definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato, nella tradizione costituzionale il Senato non ha tanto la funzione di garanzia contro eventuali eccessi della Camera (anche perché nella nostra storia è stata sempre, fino agli anni recentissimi, espressione dei medesimi rapporti fra maggioranza e opposizioni), ma piuttosto la funzione di rappresentare istanze differenziate della società. La scelta, quindi, di configurare esplicitamente il Senato come camera rappresentativa delle istituzioni territoriali — le Regioni — poteva apparire ineccepibile. Il problema è il modo in cui la riforma lo fa, non mettendo i nuovi senatori nelle
condizioni di esprimere unitariamente la volontà delle rispettive Regioni, e negando al Senato funzioni di efficace dialogo e raccordo con la Camera e con il Governo sui temi delle autonomie e dando ai senatori una immunità incomprensibile. La composizione del Senato è la rappresentazione più lampante dell’ignoranza legislativa : non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri“. Ma, se queste scelte
saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità“. Il testo sottoposto a referendum fa una scelta radicalmente sbagliata sul regionalismo: non limitandosi a correggere alcuni evidenti errori, da tutti ammessi, della riforma del 2001, ma configurando un nuovo quadro nel quale l’autonomia legislativa delle Regioni viene praticamente ridotta a zero, senza nemmeno il beneficio di una maggiore chiarezza nel riparto di competenze e quindi senza scongiurare il rischio del contenzioso Stato-Regioni. Vera è l’oscurità insita in norme come quelle che riservano alla competenza “esclusiva” dello Stato materie
tipicamente regionali quali il governo del territorio, ma limitandole al compito di dettare “disposizioni generali e comuni“. Che significa “disposizioni generali e comuni” al di là dell’ovvietà per cui le norme legislative sono “astratte e generali” e non contengono provvedimenti concreti, e valgono in tutto il territorio nazionale? Non è vero che le Regioni con l’attuale Costituzione siano ferme al livello amministrativo. Al contrario, è proprio da questa riforma che
uscirebbe un sistema di Regioni (diseguali fra loro per dimensione, per cultura istituzionale prevalente, per capacità operative) ridotte al rango di super-Province (abolite le storiche Province amministrative), prive della possibilità di esprimere le potenzialità dell’autonomia sul terreno legislativo. Sappiamo bene che in Italia da sempre si confrontano due scuole del diritto amministrativo, quella “romana” e quella “nordica”, cui corrispondono diverse sensibilità sul tema dell’autonomia. In ogni caso, il principio dell’autonomia è iscritto fra i principi fondamentali della Costituzione (art. 5) .Non si può nei fatti negare e garantire i diritti fondamentali dei cittadini sociali e civili che vadano tutelati egualmente in tutto il territorio (ciò a cui provvedono già norme precise della Costituzione vigente): bisogna lasciare spazio reale alle iniziative delle comunità territoriali substatali, sostituendosi al tradizionale centralismo dello Stato “napoleonico” anche per garantire quella comunità sociale e sussidiaria che è la vera forza in campo per lo sviluppo del paese. Il cambiamento prospettato avverrebbe oltre tutto senza nemmeno il contrappeso di una vera “Camera delle Regioni” in grado di intessere un dialogo non subalterno con le istanze centrali.

Il cambiamento prospettato non assicura neanche il rispetto della parità dei diritti di rappresentanza tra uomini e donne nelle presenze parlamentari avendo ancora una volta negato nei fatti l’incipit non solo della Costituzione Italiana ma della Carta dei Diritti Universali,senza norme di garanzia che operino questa civile democrazia. Ecco perché la riforma non è un passo avanti, ma uno indietro.

Un pasticcio vergognoso, un’incomprensibile e volgare violazione dell’intelligenza costituzionale ricorrendo a frasi sconnesse e citazioni di articoli della sovrana Costituzione operante, palesemente massacrata (art 71,art 65, 57, sesto, ecc… comma, secondo ecc…periodo, una lunghissima fila di numeri e citazioni pasticciate di incompetenti pseudo costituzionalisti ignoranti): un decreto mille proroghe in buona sostanza. Nel pasticcio la questione più evidente è l’accentramento a favore dello Stato, dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Una Costituzione che non è patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società: questo pasticcio non unisce ma divide. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in carica. Abbiamo già ora una campagna referendaria in cui il governo ha una presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che dispongono del potere e delle risorse economiche, complice anche un’informazione ormai quasi completamente allineata.

Noi dobbiamo assicurare una informazione corretta e anche tecnica: noi non possiamo accettare per i nostri figli la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata.

Le “riforme” che si stanno compiendo chiamate costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma di un esistente che non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti autoritari come quelli consumati a proposito di una chiara violazione del diritto di intendere la famiglia pavesati nella recente legge sui diritti civili. Si tratta evidentemente dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma appiattirli, ugualizzarli, standardizzarli, che significa l’opposto del far opera costituente.

Per quanto poi riguarda l’eliminazione dei costi della politica e di organismi come il CNEL , sono argomenti deboli molto deboli, perché oltre al costoso CNEL (servito solo a piazzare ex sindacalisti e neanche a raccogliere dati sui contratti e l’economia reale che potevano farci capire come si era ingessato il diritto del lavoro), la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguita in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così. Si è voluto puntare sulla demagogia alimentata nella lunga tradizione antiparlamentare e antipolitica di cui questo governo è la rappresentazione più plastica. Aver unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili.

Dov è in questo testo la sovranità del Popolo che l’art. 1 della Costituzione pone e che l’art. 11 autorizza però a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi e irresponsabili? Il popolo sovrano è stato spodestato. Se manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale. L’impegno per il No al referendum ha il significato di opporsi alla perdita della nostra sovranità e di difendere la nostra libertà.

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