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Cosa sta succedendo in Yemen. Parla Charles Schmitz

Tra le guerre meno mediatiche dei nostri tempi c’è quella in Yemen: laddove Pasolini girò “Il fiore delle mille e una notte” imperversa da un paio d’anni una guerra civile, che ha ulteriormente devastato un Paese già debole e instabile, perennemente agli ultimi posti di tutte le graduatorie internazionali. Nel 2014 i ribelli sciiti Houthi hanno conquistato la capitale, la superba Sana’a, costringendo il presidente sunnita Abd Rabbo Mansour Hadi a fuggire in Arabia Saudita. I ribelli si sono impossessati di varie porzioni di territorio yemenita e proprio l’Arabia, nel marzo 2015, ha lanciato una grande operazione militare, in coalizione con altri Paesi sunniti, per rovesciare gli equilibri sul campo. Tentativo non riuscito, o riuscito solo in parte, perché, se è vero che il governo ha riconquistato Aden, strategico porto sul Mar Rosso, e Hadi è rientrato in patria, Sana’a resta nelle mani degli Houthi.

Lo Yemen non è un Paese diviso in due, ma in tre o addirittura quattro. Alcune aree sono controllate da al Qaeda, presente da anni nella penisola arabica, ed oggetto da tempo dei raid lanciati dai droni americani, sia con Hadi che col suo predecessore Saleh, cacciato dopo una delle tante rivolte della primavera araba (breve cronistoria: Saleh è stato vittima di un attentato nella moschea del palazzo presidenziale e costretto a curarsi in Arabia Saudita, prima di acconsentire a una transizione del potere gestita dalle Nazioni Unite). E poi c’è lo Stato Islamico, che fa concorrenza ad al Qaeda all’interno della galassia fondamentalista, e ha compiuto nel Paese più di un attentato, l’ultimo dei quali a Mukalla, una settimana fa.

Come per la Siria, però, sono stati avviati dei colloqui di pace tra governo e ribelli, sotto l’egida dell’Onu. Le due delegazioni si sono incontrate in Kuwait a partire dal 21 aprile, ma i negoziati sono in una fase di stallo. Charles Schmitz, professore di geografia alla Towson University di Baltimora, in Maryland, esperto di Yemen per conto dell’International Crisis Group, conversando con Formiche.net, spiega le ragioni di questo blocco: “Mi sembra evidente che, allo stato attuale, non siano stati fatti grandi progressi. Si sta procedendo molto lentamente. La questione centrale è la natura dell’autorità che supervisionerà l’attuazione dell’eventuale accordo tra le parti. Gli Houthi vogliono creare un governo di unità nazionale che sovrintenda al processo di transizione. Hadi, spalleggiato dai sauditi, sostiene di essere l’unico governo legittimo e crede che gli Houthi debbano anzitutto arrendersi e consegnare loro le armi. Si tratta ovviamente di un non-starter per qualsiasi tipo di negoziato”.

Mercoledì il premier yemenita Ahmed bin Dagher ha nuovamente respinto la proposta di un governo unitario (“il ritiro dei ribelli dalle istituzioni non è negoziabile”). Lo ha fatto dopo un meeting a Riad, nella hall del governo saudita. L’Arabia è il burattinaio dei sunniti e l’uomo forte dei Saud, il principe Mohammed bin Salman, non può permettersi una sconfitta in Yemen, che darebbe un colpo alle sue ambizioni. La conseguenza è che si continua a combattere: “La guerra ha ripreso nuovamente campo, domenica ci sono stati degli strike aerei e, per la prima volta da mesi, sono ripresi i combattimenti nella regione settentrionale di Sa’da. L’ONU ha detto che nel conflitto yemenita sono morte sinora più di 6400 persone, gli sfollati sono circa 2,8 milioni. L’ottantadue per cento della popolazione ha bisogno di aiuto. Tuttavia, le due parti sono ancora in Kuwait a trattare, per cui non è stata persa l’ultima speranza riguardo ai negoziati”.

Il governo ha speso quasi tutte le proprie riserve monetarie per finanziare la guerra, mentre il prezzo dei beni di prima necessità continua a crescere. La crisi yemenita, però, sembra meno difficile da maneggiare rispetto, ad esempio, a quella siriana. “In Yemen”, spiega Schmitz, ci sono meno interessi rispetto a quelli che vediamo all’opera in Siria. In primo luogo, la Russia non è interessata a Sana’a. Nel Paese solo alcune potenze esercitano una certa influenza: gli Stati Uniti, gli europei, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Nonostante quello che dicono certi analisti, e soprattutto certi politici, l’Iran non gioca un grande ruolo in Yemen, a sostegno degli sciiti”.

Un grande fattore di destabilizzazione, però, c’è e si chiama Ali Abdallah Saleh, l’ex presidente tuttora potente, con un patrimonio economico notevole, anche se difficile da quantificare. Per colpire chi l’aveva spodestato – Hadi era il suo vice – si è alleato coi ribelli Houthi. “La questione Saleh”, racconta l’esperto, “non è di facile soluzione. L’ex presidente ha ancora una grande influenza in Yemen, questo è chiaro, e il suo obiettivo è mantenere questa influenza. Ogni accordo che verrà fatto dovrà includere lui, o quantomeno il suo gruppo. Dal momento che, militarmente parlando, ci troviamo in uno stato di stallo, Saleh avrà in futuro un ruolo piuttosto forte, qualsiasi sarà l’esito dei colloqui”.

Mentre le parti si confrontano e si scontrano, c’è un terzo (e addirittura un quarto) incomodo, al Qaeda, che al momento sembra essere più forte dello Stato Islamico. Le sue roccaforti sono a Sud. “I qaedisti”, conclude Schmitz, “hanno fatto una ritirata strategica dalla città di Mukalla, circa un mese fa, e danno segnali costanti della loro presenza, con una serie di attacchi mortali, adeguatamente preparati. Al di là dei colloqui e del loro sbocco, al Qaeda è in grado di rendere lo sforzo per stabilizzare il sud dello Yemen molto duro e molto costoso”.


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