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Perché l’Unione bancaria europea non è stata un successo

La Banking Union si sta dimostrando un flop. A due anni dal varo della Direttiva BRRD sulle risoluzioni bancarie, entrata in vigore il 1° gennaio scorso, i risultati attesi in termini di rafforzamento del sistema bancario, sono assai deludenti: sta determinando tanti e tali effetti negativi sul sistema creditizio europeo da fare concorrenza al Fiscal Compact. Così come quest’ultimo ha depresso le economie reali dell’Eurozona, determinando una lunga recessione ed ora una fase di stagnazione da cui non si esce nonostante le numerose clausole di flessibilità concesse, il sistema bancario europeo sta pagando pesantemente le conseguenze della direttiva sul bail-in e delle continue richieste di ricapitalizzazione della Vigilanza bancaria della Bce.

Siamo al paradosso: mentre la politica monetaria della Bce cerca di far riprendere l’economia attraverso l’erogazione di liquidità al sistema bancario, la Vigilanza sembra fare di tutto per azzopparlo. Investire nelle banche europee, così come sottoscriverne le emissioni obbligazionarie, è divenuto sempre più rischioso, con la conseguenza che le quotazioni delle azioni sono precipitate: l’indice Euro Stoxx Banks è caduto da quota 156 del maggio 2015 ai 97 punti di questo mese, non lontano rispetto al minimo della crisi che è stato di 83 punti nel giugno del 2012. Siamo ad una distanza siderale rispetto al massimo di 485 punti toccato nel maggio 2007.

Per quanto riguarda l’Italia, i dati dell’Abi sono eloquenti: a maggio 2016, la capitalizzazione di borsa del sistema bancario si è attestata a 83,4 miliardi di euro rispetto ai 133,7 miliardi del maggio 2015, registrando così una perdita di 50,3 miliardi. La raccolta a medio termine, a mezzo di obbligazioni, è passata dai 491 miliardi del maggio 2014 ai 414 miliardi del maggio 2015, per arrivare ai 351 miliardi di maggio scorso: -140 miliardi in 24 mesi, di cui -63 miliardi solo nell’ultimo anno. E’ impossibile, in queste condizioni, aumentare il credito: gli impieghi totali sono infatti calati dai 1.834 miliardi del maggio 2014 ai 1.819 miliardi del maggio 2015, ai 1.818 miliardi di maggio scorso. La maggior liquidità bancaria, derivante dagli acquisti di titoli di Stato operati dalla Banca d’Italia per conto della Bce, non si è indirizzata al credito.

La politica monetaria accomodante della Bce, che pur ha determinato circa mezzo punto percentuale della crescita del pil italiano nel 2015 e che ha ridotto l’onerosità del debito pubblico, comprime i margini operativi delle banche: secondo Abi, a maggio scorso era pari al 2,04%, in calo rispetto al 2,06% del maggio 2015. Il tasso medio sulla raccolta è stato dell’1,08%: se si dovesse ridurre ancora, soprattutto per ribaltare sulla clientela il costo derivante dalla penalizzazione dei depositi ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria decisa dalla Bce, attualmente pari allo 0,4% annuo, si metterebbe a rischio anche la raccolta a breve e così la tenuta del sistema.

È il momento di fare i conti con le riforme decise a livello europeo dopo la crisi, adottate attraverso trattati internazionali paralleli a quello di Lisbona per il Fiscal Compact e l’ESM, ovvero con vistosi strappi alla disciplina vigente attribuendo alla Bce la vigilanza unificata sulle banche sistemiche. La Banking Union è stata un’altra scorciatoia con cui l’Eurozona ha infranto il principio della unanimità necessaria per modificare i Trattati istitutivi dell’Unione, approfondendo il solco nei confronti degli altri Paesi  che non adottano la moneta unica: è stata una vera e propria Eurexit, una accelerazione violenta nella definizione delle regole sui bilanci pubblici e sul sistema bancario, che ha diviso l’Unione in modo irrecuperabile. La Gran Bretagna, che non ha aderito a questi strappi condotti dall’asse franco-tedesco, è rimasta isolata da questa dinamica: nei fatti, l’Unione Europea ormai coincide con l’Eurozona, con i suoi problemi e con i rischi della dissoluzione dell’euro.

C’è stata una svolta di fondo, nel settore bancario europeo: non si tratta solo di vietare il salvataggio da parte degli Stati, il bail-out, e quindi un onere per la collettività derivante dall’azzardo morale degli amministratori che sapevano di potersi muovere al riparo dell’intervento pubblico. In modo molto più radicale, si agisce sia sul versante della responsabilità dei depositanti e degli obbligazionisti, oltre che degli azionisti, sia sull’abbandono del principio della riserva frazionaria. E’ questa la regola applicata finora, per cui il capitale è  pari ad una percentuale fissa degli impieghi, talora pesati in funzione della loro rischiosità, al fine di fronteggiare eventuali perdite. La prospettiva è di approdare ad un assetto in cui ogni impiego bancario abbia una sua diretta e completa copertura in termini di capitale. Di converso, non ci sarà più il deposito bancario garantito, sempre disponibile in quanto  ritirabile a vista. Aumenti del capitale bancario e aumenti del rischio per il depositante convergono verso un unico obiettivo.

Il risparmiatore, tutelato finora dall’ordinamento costituzionale italiano perché mette a disposizione della banca e quindi del credito le proprie risorse, non esisterà più: diventerà investitore, esposto ai rischi della insolvenza bancaria. Il binomio risparmio-credito, tipico delle banche di deposito nate a partire dalla metà dell’Ottocento per raccogliere il risparmio popolare e mobilitare queste risorse attraverso la erogazione del credito, sarà sostituito dal binomio raccolta-impiego, tipico degli intermediari finanziari non bancari.

Rispetto a questa intelaiatura teorica, la realtà si sta muovendo in senso diametralmente opposto: da una parte, il timore dei risparmiatori di pagare per il default bancario sta portando alla riduzione della raccolta obbligazionaria; dall’altra, il divieto di interventi pubblici a favore delle banche a meno che non si tatti di crisi sistemiche, e comunque erogabili solo a condizione che siano fiscalmente neutri nel medio periodo, provoca un allontanamento degli investitori e grosse difficoltà al momento di ricapitalizzare. Le vicende italiane di queste settimane dicono tutto.

Prima, con il Fiscal Compact, sono state affondate le economie reali, facendo lievitare a dismisura il rapporto tra debiti pubblici e pil. Ora la Banking Union sta affondando il sistema del credito, peggiorando sia il rapporto tra impieghi e raccolta stabile, sia quello tra capitale netto contabile e capitalizzazione di Borsa. Con la teorizzazione della partecipazione degli investitori privati al default dei debiti pubblici, attraverso il PSI (Private sector involvement) e le CAC (Collective action clause), si è scatenato il deprezzamento dei titoli di Stato: chi li aveva li svendeva, e nessuno ne voleva di nuovi. Con la teorizzazione della partecipazione dei depositanti al default delle banche, attraverso la Direttiva BRRD e le continue richieste di ricapitalizzare da parte della Vigilanza della Bce, si è scatenato il deprezzamento dei titoli bancari, obbligazionari ed azionari: si vende e non si sottoscrive. Le strade di Bruxelles sono sempre lastricate di ottime intenzioni. E conducono invariabilmente all’inferno.


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